E dopo il CENSIS, torniamo a dire le solite e tranquillizzanti banalità. Che permettono certamente gratificanti auto rappresentazioni, ma contribuiscono ad appiattire un mondo che avrebbe bisogno di tornare a immaginare un futuro felice.
A quali banalità mi riferisco? A banalità importanti, autorevoli, rispettate. Occorre avere coraggio a definirle tali. Forse lo può fare solo chi ha respirato la libertà di contestare fino in fondo.
Oggi (11 dicembre 2007) sul Sole 24 Ore è apparso un articolo di uno dei più autorevoli economisti italiani: Alberto Quadrio Curzio. Il titolo: la politica fa perdere terreno all’economia.
Con tutto il rispetto per la persona del Prof Quadrio Curzio, la cui autorevolezza, competenza e passione non sono in discussione, non posso che sostenere che questo articolo rappresenta una sorta di “bigino” (mi veniva da scrivere “Bibbia, ma poi mi è scappato da ridere) della nuova conservazione che si fa chiamare riformismo.
Rappresenta quasi un contraltare alle proposte di De Rita che così tanto mi sono piaciute e che, evidentemente il Professore ha considerato irrilevanti.
Mi spiego.
In sostanza il Professore sostiene che stiamo commettendo errori rilevanti, non eliminiamo i veri ostacoli alla crescita e non attuiamo comportamenti virtuosi.
Gli errori: distribuire risorse calanti (si riferisce forse all’utilizzo a fini sociali dei diversi tesoretti), stabilizzare precari e a consolidare gli aumenti automatici.
Gli ostacoli alla crescita: la rigidità del mercato del lavoro, le giovani età di pensionamento, le inefficienze del pubblico impiego che , secondo lui frenano il PIL
I comportamenti virtuosi non attuati: premiare il merito e licenziare gli assenteisti.
Perché questa tesi è conservatrice?
Sostenerlo è un po’ come sostenere, come quel ragazzino della favola delle Mille e una notte, che il re è nudo. Evidente, ma sconvolgente.
Partiamo dal PIL. Oggi tutti ci stiamo cincischiando su qualche frazione di punto percentuale. Se cala dello 0,5% è una tragedia. Se cresce del 0,5% inneggiamo alle “sorti magnifiche e progressive”.
Allora vogliamo avere, prima di tutto, il coraggio di dirci chiaro e forte che abbiamo bisogno di aumentare il PIL di almeno diversi punti percentuali l’anno per riuscire a migliorare davvero la qualità della vita complessiva?
Se ce lo diciamo scopriamo che le attuali politiche economiche, né di destra né di sinistra, non sono in grado di generarlo. E ci rendiamo conto che sono necessarie altre politiche economiche.
Già questo basterebbe a sbarazzare il campo dalla illusione che basti eliminare gli errori e gli ostacoli ed attuare i comportamenti virtuosi citati dal Professore. Ed a spingerci a cercare altre strade.
Ma voglio esaminare da vicino le tesi del professore perché questo esame ci suggerisce da che altra parte andare rispetto a quelle che egli propone.
Gli errori: distribuire risorse calanti (si riferisce forse all’utilizzo a fini sociali dei diversi tesoretti), stabilizzare precari e consolidare gli aumenti automatici.
Ma questi non sono errori, sono solo palliativi che cercano di evitare guai più grossi. Se non distribuiamo risorse ai meno abbienti, non garantiamo pensioni decenti e non distribuiamo sicurezza non freneremo il calo dei consumi.
Ma sono, però, davvero solo palliativi. Occorrerebbe andare molto più in là: dobbiamo aumentare in modo rilevante stipendi e salari per rilanciare il nostro sistema industriale ed economico.
Ma la competizione internazionale non lo permette. Occorre diventare più competitivi e, quindi, ridurre i costi, soprattutto i costi del lavoro.
Grande sciocchezza. Credo noi si debba piantarla con falsi obiettivi come la competitività o la produttività. Per una ragione radicale. Quando si parla di competitività e produttività si da’ per scontato che non si possa inventare nulla di radicalmente nuovo. E’ questo è il vero errore che impedisce lo sviluppo. Anzi, porta a ridurre la quantità e la qualità dell’occupazione.
Credo basti un esempio per convincercene. Noi abbiamo inventato il fare banca. I nostri banchieri che l’hanno inventato non aveva certo il problema della competitività e della produttività. Avevano il problema di costruire un mercato per il fare banca.
Oggi i nostri banchieri hanno i problemi della competitività e della produttività. E questo significa che hanno rinunciato a fare come i nostri antichi padri: inventarsi un nuovo modo di fare banca. Si sono appiattiti al modello di fare banca anglosassone. E pervicacemente copiando non possono che essere costretti a ritagliarsi un differenziale di costo per sopravvivere.
Ma esiste la possibilità di inventare un nuovo modo di fare banca? Ma certo che esiste. Chi voglia provare a individuarne le caratteristiche basta che legga il nostro documento sullo sviluppo dei territori.
Ma nessuno oggi sta stimolando i nostri banchieri a farlo! Anzi “selezioniamo” chi sceglie espressamente di non farlo.
Gli ostacoli alla crescita: la rigidità del mercato del lavoro, le giovani età di pensionamento, le inefficienze del pubblico impiego che , secondo lui, frenano il PIL.
Ma sono ostacoli solo per chi si rifugia nel competere e rinuncia a cambiare il mondo. Agli altri non pesano, anzi sono certi che è il loro innovare profondamente che li elimina. Noi purtroppo crediamo il viceversa. Pensiamo che occorra prima cambiamo il mercato del lavoro, il sistema di Welfare e il pubblico impiego. E poi risorgerà il sistema economico. Credo che in una economia capitalistica sana questo rapporto vada invertito. Sono le imprese profondamente innovative che producono la ricchezza per migliorare il sistema del welfare. Questa imprese innovative non hanno problemi a tenersi stretti i lavoratori che sanno come produrre le innovazione che spesso hanno anche contribuito a sviluppare. Anche il pubblico impiego potrà disporre delle risorse che gli permetteranno un salto di qualità, evitando la stupida strategia giustizialista di punire assenteisti presunti e spesso incolpevoli perché è difficile essere attori entusiasti di organizzazioni alle quali si lesina il necessario alla sopravvivenza.
Finito. La conclusione? Proviamo a prendere sul serio la proposta di De Rita. Costruiamo una nuova minoranza che voglia rinnovare profondamente la vocazione, i sistemi d’offerta e il modo di fare impresa attuali. E’ possibile farlo usando la nuova cultura della complessità.
Accettando di essere un po’ Romantici, costruiamo una minoranza che voglia ricominciare a dipingere gioconde che vengono contese per secoli, cappelle sistine che abbagliano per secoli, ed a edificare cupoloni che perpetuano nei secoli la voglia di infinito. Forse oggi non si usano i pennelli, ma la tecnologia. Forse le nuove cattedrali sono imprese radicalmente innovative. Ma lo spirito è lo stesso. Oggi è i qualche interstizio ancora presente. Ma solo nel fare qualche auto, qualche paio di scarpe o qualche vestito. Forse un po’ poco per i figli del Rinascimento.
Ma sia la proposta di De Rita che la nuova cultura della complessità sono assenti dalle parole del Professore. Cioè sono assenti le risorse vitali su cui costruire sviluppo. Ecco perché ritengo che le sue proposte non siano altro che lo sforzo, certo inconsapevole, di mantenere quel mondo dove non è più necessario giustificare ogni giorno la proprio autorevolezza. E chi non sta bene in questo mondo, cerchi di starci il meno peggio possibile perché di cambiarlo radicalmente non se ne può neanche parlare.