In questi giorni sta riaccendendosi un dibattito che è quasi eterno: autogestione sì, autogestione no. Sacconi ha riavviato il dibattito, Bonanni si è dichiarato d’accordo. La CGIL, come è “naturale”, è contraria. Che pensare?
Innanzitutto che occorre uscire dagli schemi ideologici pro e contro la libera impresa. Intendo dire che tutte e due le assolutizzazioni (la libera impresa è il demonio, la libera impresa è la salvezza) sono oramai troppo semplicistiche.
E allora da che parte guardare? Credo che sia necessario partire da una domanda: ma cosa significa “gestire”. Di che cosa è fatto e che obiettivi ha quel processo di gestione al quale alcuni vogliono partecipare, mentre altri se vogliono orgogliosamente chiamare fuori?
Sembra una domanda scontata, ma non lo è! Ed è proprio nel non dare una risposta precisa a questa domanda che si alimenta un conflitto, nei dibattiti e nei fatti, che è dannoso per tutti.
Gestire può voler dire un continuum di cose. Ma è importante focalizzarsi su due estremi di questo continuum.
Primo estremo: gestire vuol dire far funzionare al meglio l’esistente. Se intendiamo in questo senso gestire allora non bisogna cogestire. Occorre unità di comando, frenata e controllata dal sindacato, nello specifico, e dal sociale, intermini più generali.
Secondo estremo: gestire significa costruire un progetto di sviluppo, di cambiamento continuo. Se intendiamo in questo senso gestire, allora la cogestione è l’unico modo per aumentare la qualità di questo progettare. Cogestire, cioè chiamare a raccolta tutte le idee, le speranze, le passioni. Portarla a sintesi in una nuova mission. Trasformare la nuova mission in un piano credibile per realizzarla.
Rifaccio la domanda: oggi cosa vogliamo significhi gestire? Io credo debba significare: progettare un futuro molto diverso dal presente. Allora la cogestione è obbligata.
Come sempre è un problema di conoscenze e di metodi.
Infatti, “partecipazione” è una bella parola, ma occorre far sì che diventi pratica feconda. Per raggiungere questo obiettivo occorre che sia i “lavoratori” che i “padroni” (le virgolette voglio esorcizzare le ideologie) si impadroniscano della cultura che serve a progettare il futuro. Non è la cultura economica (né macro, né micro), ma è la cultura strategica. E non è quella che trova la sua massima espressione nella scuola di Harvard e nei big della consulenza strategica internazionale. Ma è la nuova cultura strategica che nasce in “territori” lontani: dai territori “culturali” delle scienze della complessità, ai territori geografici come la Nuova Zelanda. E sta trovando proprio in Italia il terreno più fertile.