bollino ceralaccato

Competizione complessa internazionale: quali prospettive?

La complessità degli scenari economico e finanziari richiede, per una sua profonda comprensione, una visione olistica degli stessi fenomeni che includa aspetti esistenziali (invecchiamento della popolazione, scolarizzazione, ecc...). Ecco una vasta "radiografia" dell'umanità per meglio immaginarne i possibili scenari complessi futuri

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Le prospettive negli scenari complessi internazionali possono essere almeno in parte delineate da una serie di dati e informazioni elaborate dalle principali Istituzioni internazionali di carattere economico, Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea, Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) ed altri.

In particolare l’OCSE, che raggruppa tutti i principali Paesi del mondo occidentale ha recentemente pubblicato un rapporto1 che valuta come crescerà in futuro il Prodotto Interno Lordo (PIL) dei più importanti Paesi e a livello mondiale nell’immediato e nel futuro.

Il rapporto prevede che l’economia mondiale fino al 2060 crescerà complessivamente di circa il 3% all’anno, ma ovviamente mentre alcuni Paesi cresceranno ad un ritmo intenso, altri avranno una crescita economica molto minore, mentre non può essere escluso che alcune nazioni rimangano per alcuni anni in una fase di stagnazione.

Da questa particolare prospettiva, che valuta la crescita differenziata dei diversi Paesi, la possibilità di un periodo di stagnazione per alcuni dei paesi membri dell’OCSE ed in particolare per alcuni Paesi europei tra cui l’Italia, è evidenziata in un altro rapporto dell’organizzazione pubblicato nel novembre 20122.

In questo rapporto si confrontano per gli anni dal 2011 al 2014 i dati (2011 e 2012) e le previsioni (2013 e 2014) sul Prodotto Interno Lordo (PIL) degli USA, dell’area Euro, del Giappone e il totale dei Paesi aderenti all’OCSE con i dati e le previsioni dei Paesi emergenti: Brasile, Cina, India, Indonesia, Russia e Sud Africa. Queste informazioni sono sintetizzate nelle seguenti tabelle 1 e 2 che mostrano con evidenza le difficoltà dei Paesi dell’area Euro e del Giappone ad uscire dalla crisi economica attuale avviando una ripresa economica che stenta a manifestarsi. Situazione migliore per gli USA che a fine del 2012 dovrebbero segnare un + 2,2% di incremento del PIL, che però solo nel 2014 si dovrebbe assestare ad una quota vicina al +3% (2,8%). Il confronto esplicitato dalla tabella 1 con i Paesi emergenti è impietoso: per questi Paesi la crisi economica che travaglia il mondo occidentale ha causato solo un rallentamento della loro crescita impetuosa.

 

2011

2012

2013

2014

USA

1,8

2,2

2

2,8

Euro Area

1,5

-0,4

-0,1

1,3

Japan

-0,7

1,6

0,7

0,8

Total OECD

1,8

1,4

1,4

2,3

Brazil

2,7

1,5

4

4,1

China

9,3

7,5

8,5

8,9

India

7,8

4,5

5,9

7

Indonesia

6,5

6,2

6,3

6,5

Russia

4,3

3,4

3,8

4,1

South Africa

3,1

2,6

3,3

4


Tabella 1: la crescita del PIL dal 2011 al 2014 nei Paesi dell’area OCSE a confronto con i Paesi cosiddetti emergenti.
Fonte OCSE: What is the global economic out look? 27 novembre 2012 by A. Guarrìa, Segretary General e P. C. Padoan, Deputy Segretary General and Chief economist.

 

 

USA

EuroArea

Japan

PIL 2013

2,0%

-0,10%

0,70%

PIL 2014

2,8%

1,30%

0,80%


Tabella 2: confronto delle previsioni di crescita del PIL degli USA, Area Euro e Giappone
. Fonte OCSE: What is the global economic out look? 27 novembre 2012 by A. Guarrìa, Segretary General e P. C. Padoan, Deputy Segretary General and Chief economist.

 

In particolare il rapporto evidenzia come in tutti i Paesi dell’area Euro si stiano verificando fenomeni analoghi anche se con intensità diverse Paese per Paese, ovvero come il blocco dello sviluppo economico abbia causato in cascata un vistoso calo dell’occupazione, la diminuzione dei consumi interni e il peggioramento degli standard di qualità della vita di una parte considerevole dei cittadini, difficoltà nella stabilità e nell’azione finanziaria del sistema bancario, un significativo declino del risparmio in tutte le sue forme, una stasi del contributo dei Paesi dell’area alla crescita del commercio internazionale. Un contesto quello dei Paesi dell’area Euro molto differenziato da quello che presentano i Paesi emergenti e molti dei Paesi dell’Est Asiatico, che pur con ritmi diversi registrano trend di crescita economica decisamente significativi. I dati che emergono dal rapporto, sia quelli sulla situazione attuale che in prospettiva, assumono una grande rilevanza e mostrano con evidenza un futuro inquietante per tutti i principali Paesi del mondo occidentale. In particolare gli USA vedranno diminuire il proprio peso relativo sul complesso del PIL mondiale che attualmente è pari al 23% al 16%. Questo significa che gli USA perderanno il loro ruolo di potenza economica leader a livello mondiale, soppiantati in questa posizione dalla Cina che invece vedrà crescere la propria quota di contribuzione al PIL mondiale dall’attuale 17% al 28%.

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Grafico 1: Long term shift in the comparition og Global GDP. Global GDP is taken as the sun of GDP for 34 OECD and 8 non OECD G20 Countries. Fonte A. Joahnsson et. al. 2012, OECD Economic Policy Papers N3 “Looking to 2060: long term global growth prospects”.

 

Secondo l’OCSE la fatidica data nella quale l’economia della Cina supererà quella degli USA come maggiore economia a livello mondiale, è ormai molto vicina: sarà infatti il 2016 l’anno del sorpasso.

Occorre ricordare e riflettere che al momento della prima elezione di B.Obama alla presidenza degli USA, era il novembre 2008, fu presentato al neo presidente il rapporto “Global trend”3, realizzato dal National Intelligence Council l’organismo che riunisce le principali agenzie USA (NASA, CIA, FBI,ecc.), che faceva il quadro della situazione internazionale e individuava i principali trend a livello mondiale, disegnando con precisione la posizione attuale e prospettica degli USA. In quel rapporto, nel 2008, la previsione del

sorpasso dell’economia cinese rispetto a quella USA era già definita con precisione, ma l’anno nel quale il sorpasso era previsto e veniva individuato nel 2025. Quella previsione ha avuto in soli quattro anni una straordinaria accelerazione, in buona parte dovuta alla lunga crisi che ha investito gli USA e più in generale le economie dei Paesi occidentali, proprio a partire dal 2008.

Diviene molto importante per l’Europa fare un’attenta disamina di queste tendenze e prepararsi agli scenari complessi economici mondiali che vedranno cambiamenti geoeconomici e politici a ritmi sempre più sostenuti. Secondo gli ultimi dati pubblicati dall’OCSE malgrado il rallentamento che l’economia cinese ha avuto nell’ultimo periodo (ultimo trimestre 2011 e primi trimestri del 2012), che ha rappresentato la fase di maggiore “stasi” dell’economia del dragone, il sorpasso dell’economia USA sarà inevitabile. Le esportazioni cinesi nel corso del 2012 sono cresciute meno delle previsioni, infatti secondo i dati dell’amministrazione generale delle dogane cinesi mentre le previsioni si attestavano su un +3% le esportazioni si sono assestate sul +2,7%.

Ad agosto 2012 il surplus commerciale cinese, che a giugno era stato di 31,7 miliardi di dollari, è sceso a 26,6 miliardi di dollari. Questi risultati sono stati in larga parte determinati dalla crisi economica che ha investito gli USA e soprattutto l’UE che rappresentano i principali mercati di sbocco per le merci del gigante asiatico. Secondo le previsioni fornite dal Ministero dell’Economia della Repubblica Popolare Cinese il PIL crescerà dell’8,2% con un calo di un punto percentuale rispetto al 2011, ma sulla base degli investimenti interni realizzati nel corso dell’anno dovrebbe crescere nel corso del 2013, attestandosi su una percentuale del 9,3%.

Qualora la crescita dell’economia del Paese asiatico dovesse subire rallentamenti nel corso del 2013 il Governo ed i suoi strumenti finanziari più importanti, ovvero i grandi Fondi Sovrani4 dovrebbero intervenire in maniera significativa sugli investimenti infrastrutturali interni, in misura tale da sostenere la crescita economica del Paese.

Il Governo Cinese ha già assunto degli impegni per garantire la crescita della concorrenza sul mercato interno nell’obiettivo di renderlo più libero e competitivo, in modo particolare per quanto riguarda il settore bancario attraverso la liberalizzazione dei tassi bancari.

I dati sulla produzione industriale cinese ad ottobre 2012 registrano un incremento del +9,6% su base annua a testimonianza della vitalità dell’economia di questo Paese e del probabile superamento nel corso del 2013 del rallentamento economico registrato nell’ultima parte del 2011 e di una parte del 2012. Del resto anche l’andamento degli investimenti interni è cresciuto in maniera significativa attestandosi su base annua a fine 2012 ad un significativo +9,6%, unitamente alla crescita delle vendite interne al dettaglio aumentate su base annua 2012 di +14,5% trainate da un rallentamento dell’indice dei prezzi al consumo che nelle previsioni dovrebbe attestarsi a fine 2012 ad un +3,3 a fronte del +5,5% registrato per l’anno 2011. Questi ultimi dati sono espressione di come la politica economica del Governo cinese cominci, seppure limitatamente, a considerare la crescita della domanda interna un’opzione sempre più rilevante nell’ambito di una strategia di sviluppo ancora principalmente orientata alla crescita dell’export.

La prospettiva è che la crescita basata sulle esportazioni lasci spazio ad una politica orientata alla crescita dei consumi e del reddito della popolazione.

Occorre a questo proposito ricordare che il XVIII Congresso del Partito Comunista Cinese svoltosi nel novembre 2012 ha fissato l’obiettivo del raddoppio del reddito familiare entro il 2020. Questa decisione dovrebbe determinare: “lo svincolo di 63 trilioni di renminbi (pari a 10,2 trilioni di dollari) in termini di potere d’acquisto, mentre l’enorme mercato interno cinese dovrebbe diventare gradualmente un nuovo fattore di spinta per la crescita interna ed internazionale.”5

Le informazioni fornite dal rapporto dell’OCSE evidenziano una Cina che è stata toccata in maniera estremamente limitata dalla crisi che ha colpito l’economia mondiale e che attanaglia in modo ancora molto grave l’Europa. Il colosso cinese si presenta ancora e sempre più come la più dinamica economia mondiale e rappresenta indubbiamente la più grande opportunità per le imprese europee ed in particolare per quelle del nostro Paese, che gode di un prestigio a vanta settori produttivi nei quali è leader a livello mondiale per quanto riguarda i prodotti di qualità.

 

Competizione internazionale, attrazione delle imprese e regimi fiscali

L’enorme mercato della Repubblica Popolare Cinese ha interi settori della domanda che attendono prodotti e proposte produttive adeguate. Questo mercato può essere molto importante nella prospettiva di un rilancio economico ed anche occupazionale per l’economia italiana. Lo sviluppo della produzione interna cinese, l’incremento significativo delle vendite al dettaglio, la crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL) sono tutti indicatori di un’economia e di un mercato che ha molto da offrire alla struttura produttiva ed imprenditoriale del nostro Paese.

La Cina è quindi una grande opportunità, ma questa felice circostanza presenta, come spesso accade, anche un rischio. Vediamo di approfondire quest’ultimo aspetto. Non pochi Paesi si sono posti l’obiettivo di attrarre imprese ed investitori stranieri nel proprio Paese. In un posto di prima fila la Confederazione Elvetica, che proprio su questo piano ha una vertenza con l’Unione Europea che ha mosso rilievi alla Confederazione in materia fiscale. Già nel febbraio 2007 la Comunità Europea ha qualificato alcuni statuti fiscali Cantonali come aiuti di Stato: ovvero ha accusato la Confederazione di avere permesso a diversi Cantoni di adottare regimi fiscali che rappresentano una distorsione della concorrenza di mercato. Regimi fiscali che con tutta evidenza interferiscono sul mercato in maniera scorretta ed antitetica con l’accordo di libero scambio sottoscritto dalla Confederazione e dall’ Unione Europea (UE) nel 1972.

L’UE ritiene che la diversa tassazione del reddito nazionale e di quello ed estero sia selettiva e crei delle distorsioni nel mercato favorendo il trasferimento di imprese nel territorio della Svizzera. Mentre l’UE fa pressioni sulla Confederazione altri Paesi stanno però sviluppando provvedimenti in materia fiscale che presentano, pur nella loro diversità, profili simili a quelli sinora adottati dalla Svizzera. Provvedimenti che mirano anch’essi a determinare vantaggi fiscali per le imprese straniere, nella prospettiva di attrarre imprese ed organizzazioni provenienti da altri Paesi.

Particolari deduzioni fiscali per gli investimenti nella ricerca e lo sviluppo, l’assenza di ritenuta alla fonte per i dividendi in uscita dal Paese, deduzioni forfettarie di interessi sul capitale proprio investito ecc. sono questi i provvedimenti in materia fiscale in discussione.

In Gran Bretagna si sta dibattendo a livello parlamentare una riforma fiscale che, qualora fosse approvata, determinerebbe condizioni fiscali vantaggiose per le imprese straniere che si insediano nel Paese, condizioni fiscali vicine a quelle praticate oggi dalla Confederazione Elvetica, soprattutto per quanto riguarda l’insediamento di società-holding che godono in questo Paese di uno statuto fiscale privilegiato, così come anche l’apporto di capitali esteri.

Occorre sottolineare che per la Confederazione Elvetica le società a statuto fiscale privilegiato rappresentano una quota rilevante delle entrate fiscali e garantiscono molti posti di lavoro qualificati.

È evidente come la situazione di crisi determini un contesto in cui le imprese, attraverso comportamenti giuridicamente leciti, puntino ad esperire iniziative tendenti a ridurre il carico fiscale. Tra queste iniziative quella della localizzazione in Paesi favorevoli sotto l’aspetto fiscale e del costo del lavoro è sicuramente una strada che non poche imprese italiane hanno già intrapreso nel passato.

Infatti, le imprese italiane si sono trovare a dover fronteggiare problemi quali il costo del lavoro piuttosto alto nel nostro Paese (il cosiddetto cuneo fiscale), l’approvvigionamento di materie prime e semi-lavorati, i costi elevati delle risorse energetiche, l’opportunità-difficoltà di approcciare nuovi e promettenti mercati, ed in alcuni casi la delocalizzazione di una parte più o meno consistente della propria attività produttiva è stato l’esito finale della soluzione di questo tipo di problemi. In questa fase le imprese si trovano nella condizione di doversi confrontare con l’opportunità -necessità di lasciare alcuni Paesi i cui sistemi fiscali appaiono chiaramente ostili e decisamente meno favorevoli rispetto a quelli di altri Paesi.

La delocalizzazione delle imprese qualunque sia la motivazione alla base di questo fenomeno, impoverisce il tessuto economico del Paese abbandonato e peggiora il rapporto debito nazionale/PIL, perché riduce sensibilmente proprio il PIL. Quando la delocalizzazione costituisce la scelta di una grande impresa, che rappresenta la tipologia di organizzazione che può attivare questa opzione con maggiore facilità, questa circostanza produce l’effetto di trascinamento sulle piccole e medie imprese del’indotto. L’accanimento fiscale che caratterizza il nostro Paese, cui si aggiunge la ormai incombente norma sulla tassazione delle transazioni finanziarie (la cosiddetta Tobin Tax) corre il rischio di provocare un ulteriore processo di delocalizzazione da parte delle imprese e di favorire i Paesi emergenti e le nazioni europee che hanno regimi fiscali più favorevoli.

 

Mercato dei capitali e crescita dell’imprenditorialità

Il nostro Paese non ha particolare capacità di investimento e la nostra posizione nel mercato internazionale dei capitali è modesta. Mercato dei capitali ormai largamente globalizzato ed i cui orientamenti maturano al di fuori del nostro Paese.

I grandi protagonisti nel mercato dei capitali sono i Paesi grandi produttori di materie prime (soprattutto petrolio), i Paesi cosiddetti emergenti, i Fondi Sovrani e i grandi Fondi Pensione del mondo occidentale cui si stanno aggiungendo sempre più rapidamente quelli dei Paesi emergenti.

Non potendo competere sul mercato dei capitali per garantire lo sviluppo economico in prospettiva occorrerà necessariamente puntare sulle esportazioni contando sulla domanda del mercato internazionale che, grazie ai Paesi emergenti, si prevede generalmente in crescita anche e forse soprattutto per i beni di qualità.

La domanda interna, il rilancio dei consumi in un Paese maturo come è l’Italia e con una crescita demografica tendente allo zero, non appare in grado di garantire un rilancio economico duraturo e la capacità di competere.

Se non vogliamo entrare nella pericolosa spirale del declino occorre potenziare la nostra capacità di esportazione e quindi puntare sulla crescita numerica e qualitativa degli imprenditori.

In questa prospettiva nel Parlamento europeo è già stata presentata una proposta di “Piano d’azione” che partendo da una importante sottolineatura del ruolo fondamentale dell’istruzione e della formazione, si articola in sei aree di iniziativa:

  1. Accesso ai finanziamenti: oltre al rafforzamento degli strumenti finanziari esistenti, la Commissione Europea propone la creazione di un mercato europeo della microfinanza e la semplificazione della fiscalità per consentire alle Pmi di ottenere finanziamenti mediante investimenti diretti privati. Si parla di mini obbligazioni, crowdfunding, investimenti dei business angel.

  2. Sostegno nelle fasi cruciali del ciclo vitale dell'impresa: circa il 50% delle imprese fallisce nel corso dei primi cinque anni, pertanto gli Stati membri devono destinare maggiori risorse per aiutare le nuove imprese a superare questo periodo difficile, grazie ad esempio alla formazione degli amministratori, al tutoraggio in tema di R&S, alla costituzione di reti con i pari e con i fornitori e clienti potenziali.

  3. Sprigionare le nuove opportunità imprenditoriali dell'età digitale: le Pmi crescono a un ritmo da due a tre volte più celere quando fanno uso dell'Ict. Un maggiore sostegno alle startup stabilite sul web e al rafforzamento delle competenze in questo campo può aiutare, sia gli imprenditori digitali, che le imprese più tradizionali.

  4. Agevolare il trasferimento di imprese: ogni anno circa 450mila imprese con 2 milioni di dipendenti vengono trasferite a nuovi proprietari all'interno dell'Europa, il che comporta, secondo le stime, una perdita di circa 150mila imprese e 600mila posti di lavoro.

La Commissione europea propone di espandere i mercati per le imprese e di eliminare gli ostacoli ai trasferimenti transfrontalieri di imprese.

  1. Seconda opportunità per gli imprenditori onesti dopo un fallimento: la maggioranza (96%) delle bancarotte è dovuta ad una sequela di pagamenti tardivi o di altri problemi pratici. Il secondo tentativo, invece, ha più successo.

La Commissione europea ha quindi proposto di spostare l'attenzione dalla liquidazione verso una nuova impostazione che aiuti le imprese a superare le difficoltà finanziarie.

  1. Semplificazione amministrativa: la Commissione continuerà a perseguire con determinazione la riduzione dell'onere normativo. La Commissione europea intende anche promuovere l'imprenditorialità fra gruppi specifici della popolazione: donne, anziani (gli imprenditori in pensione dispongono di un know-how che andrebbe trasferito alle future generazioni), migranti, programmi di sostegno alla creazione di imprese destinati ai disoccupati dovrebbero comprendere azioni di formazione, servizi di consulenza e tutoraggio.

 

L'invecchiamento della popolazione un fattore critico

L'invecchiamento della popolazione, causato dalla diminuzione del tasso di natalità e dall’aumento della longevità degli individui, ha un effetto potenzialmente negativo sul trend di crescita di un Paese in quanto porta ad una diminuzione della percentuale di persone in età lavorativa6 ed un conseguente effetto negativo sulla potenziale forza lavoro.

Le proiezioni demografiche indicano che l'invecchiamento nei prossimi 50 anni sarà particolarmente rapido in Asia, nei Paesi dell' est Europa e nei Paesi del sud Europa, con un indice di dipendenza degli anziani7 più che raddoppiato nel vecchio continente e perfino quadruplicato in Cina (Grafico 2a)8. Parallelamente il numero di individui in età lavorativa dovrebbe nella maggior parte dei Paesi ridursi di circa 9 punti percentuale (Grafico 2b) fatta eccezione per alcuni Paesi emergenti come Sud Africa e India che prevedono invece un aumento del numero di abitanti in età attiva. Questo effetto conosciuto come "dividendo demografico" è derivato dal recente calo dell’indice di fertilità in Sud Africa e India, che a sua volta abbassa l’indice di dipendenza dei giovani9 dopo una generazione.

Tenendo in considerazione i trend di sviluppo delle differenti fasce d’età, nei prossimi 50 anni è previsto un aumento dello 0,3% annuo della popolazione mondiale; tale crescita relativamente elevata della popolazione agirà come un freno sulla crescita del PIL pro capite in alcuni Paesi (ad esempio Paesi di lingua inglese e di alcune economie emergenti).

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Grafico 2a: Populations will age in most countries. The traditionally defined old-age dependency ratio steadily rises Per cent of the population older than 65 as a share of population aged 15-64. Fonte A. Joahnsson et. al. 2012, OECD Economic Policy Papers N3 “Looking to 2060: long term global growth prospects”.

img3

 

Grafico 2b: Populations will age in most countries. The population of traditional working-age steadily declines. Share of the population age 15-64 in total population. Fonte A. Joahnsson et. al. 2012, OECD Economic Policy Papers N3 “Looking to 2060: long term global growth prospects”.

 

La situazione europea e italiana

Per quanto riguarda tutta l’Europa il quadro di riferimento si presenta fosco. Secondo la Commissione Europea gli effetti dell’invecchiamento della popolazione avranno un impatto di grande portata e tali effetti penalizzeranno le società più statiche dal punto di vista socio-economico e meno disposte ad innovare sul piano istituzionale le regole socio-politiche.

Previsioni demografiche in alcuni Paesi europei, 2004-2050

(valori in milioni; variazioni % nel periodo)

 

Popolazione totale

Popolazione attiva
(15-65 anni)

Popolazione anziana

 

 

2004

2050

Variaz %

2004

2050

Variaz %

2004

2050

Variaz %

Germania

82,5

77,7

-5,8

55,5

45,0

-18,9

14,9

23,3

56,4

Francia

59,9

65,1

8,7

39,0

37,4

-4,1

9,8

17,4

77,6

Italia

57,9

53,8

-7,1

38,5

29,3

-23,9

11,1

18,2

64,0

UK

59,7

64,2

7,5

39,2

37,8

-3,6

9,5

17,0

78,9

Spagna

42,3

43,0

1,7

29,1

22,9

-21,3

7,1

15,0

111,3

UE 15

382,7

388,3

1,5

255,1

221,3

-13,2

65,2

114,2

75,2

 

Per tutta una lunga fase i sistemi di solidarietà sociale e sanitaria saranno sottoposti a forte stress in una fase in cui i bilanci degli stati offrono ben pochi margini per investimenti nella spesa sociale.

Le risposte a questo fenomeno da parte degli Stati occidentali ed in particolare dell’Europa sono state per ora molto timide ed incerte: i governi temono l’impopolarità che potrebbe derivare da scelte destinate a modificare più o meno consolidate prassi sociali.

La situazione sul piano politico può essere così sintetizzata nel quadro europeo:

  • Nessuna seria politica per favorire l’ingresso anticipato dei giovani nel mercato del lavoro;

  • Tentativo di innalzamento generale dell’età pensionabile a 65 anni vista come standard a livello europeo, ma gli ostacoli in questa direzione non sono ancora stati del tutto rimossi.

A cambiare radicalmente sarà invece il mercato del lavoro, un fenomeno che è iniziato in sordina negli anni 80-90 del secolo scorso.

Gli effetti dell’innalzamento della scolarità e quindi dell’incremento dell’età con cui i giovani europei entrano nel mercato del lavoro e del conseguente venir meno della disponibilità a svolgere certe mansioni, sono stati compensati con i flussi migratori provenienti da Paesi extra europei e dell’Europa dell’est.

Oggi i flussi migratori sono di fatto indispensabili per coprire i vuoti determinati dal calo demografico e dal mutamento nel rapporto tra domanda ed offerta di lavoro per quanto riguarda la popolazione nativa, soprattutto quella giovane in fase di ingresso nel mercato.

Secondo i dati dell’UE tra il 2000 e il 2050 per effetto dell’evoluzione demografica la popolazione attiva (ovvero in età di lavoro) avrà un saldo negativo di ben 150 milioni di persone. Un’enorme distruzione di persone che richiama alla mente le grandi epidemie di peste del passato.

In queste condizioni, senza un considerevole flusso migratorio, sarebbe impensabile far funzionare alcuni settori del comparto manifatturiero (costruzioni,ecc.), dell’agricoltura, della sanità e dei servizi sociali.

Gli emigranti rappresentano quote crescenti della popolazione attiva e occorre riconoscere che il loro contributo alla vita sociale ed economica dei più importanti Paesi europei diviene sempre più importante.

Una quota sempre maggiore di anziani sul complesso della popolazione determina pressoché inevitabilmente una crescita nei servizi di assistenza a basso o medio contenuto medico-sanitario: assistenza a persone anziane, rieducazione motoria, la crescita numerica delle RSA (Residenze Socio Assistenziali) sono gli esempi attuali più manifesti di questa tendenza.

Già oggigiorno alcuni sistemi sanitari pubblici hanno difficoltà a finanziare gli interventi di assistenza, di rieducazione e di aiuto domestico.

Tra qualche anno questa difficoltà potrebbe trasformarsi in impossibilità in una fase, ormai alle porte, in cui le tasse sul lavoro di due persone dovranno pagare tutti i servizi erogati a una persona anziana: questo è il quadro offerto da un contesto demografico nel quale il 30% della popolazione totale è ultrasessantacinquenne e pensionata.

 

Il capitale umano un elemento strategico per la crescita

Sulla bilancia della crescita la qualità del lavoro avrà un peso significativo rispetto alla quantità dello stesso. In passato, con l’aumento del numero medio di anni di scolarizzazione10, il livello di istruzione ha generato un punto di convergenza tra i Paesi ad alto reddito e i Paesi a medio reddito11 grazie soprattutto ad un miglioramento del livello formativo dei Paesi con una bassa scolarizzazione (ad esempio, Corea, Indonesia, Cina, Turchia e Brasile) (Grafico 3). L’aumento del livello di istruzione nella popolazione adulta si traduce in termini economici in una maggiore rendita per i lavoratori e in un netto miglioramento nel valore del capitale umano12.

Nei prossimi 50 anni l’incremento di capitale umano nei Paesi emergenti è destinato a continuare e di conseguenza anche il livello medio di scolarizzazione della popolazione adulta13 sarà in aumento; il tasso di istruzione si allineerà lentamente a quello della Corea del Sud14 che attualmente detiene il più alto livello di istruzione (25-29 anni) dei Paesi emergenti. Il raggiungimento del punto di convergenza si determina anche in virtù della decrescita dei rendimenti dell’istruzione (sia per gli individui che per la società nel suo complesso) e per l’aumento dei costi di istruzione per l’acquisizione di titoli di studio di alta formazione15. La scolarizzazione d’eccellenza trova un mercato in costante aumento in Paesi come India, Cina, Turchia, Portogallo e Sud Africa (Grafico 3). Tuttavia, essendo proprio il livello di istruzione della popolazione adulta il dato statistico preso in esame è possibile osservare come notevoli differenze di scolarizzazione persisteranno ancora per lungo tempo.

I Paesi con un più elevato tasso di istruzione della popolazione adulta, in grado di permettere e favorire un costante aggiornamento durante tutto il ciclo di vita lavorativo di un individuo, saranno quelli che si assicureranno un maggiore incremento del proprio Prodotto Interno Lordo (PIL).

img4

 

Grafico 3: Educational attainment will increase over time. Average years of schooling of the adult population. Fonte A. Joahnsson et. al. 2012, OECD Economic Policy Papers N3 “Looking to 2060: long term global growth prospects”.

 

La situazione italiana

Ci limiteremo ad esaminare solo alcuni dati che illustrano la situazione del sistema universitario che rappresenta la più importante struttura di formazione e di mobilità sociale.

Il quadro che emerge evidenzia il ritardo del nostro Paese per quanto riguarda lo sviluppo del capitale umano.

Percentuale dei laureati

Il numero di chi accede a un titolo di studio universitario, in Italia, è decisamente sotto la media OCSE, le cui rilevazioni riferite al 2010 collocano l’Italia al 34° posto su 36 Paesi considerati [OCSE, Education at a Glance 2012]. In termini assoluti, nella fascia di età 30-34 anni, solo il 19% possiede un diploma di laurea, contro una media europea del 30% [Eurostat, Key Data on Education in Europe 2009]. Si ricorda che la Commissione UE, ai fini della strategia Europa 2020, chiede agli Stati membri di raggiungere una percentuale almeno del 40% di laureati in quella fascia di età. Nel Programma Nazionale di Riforma 2012 l’Italia si è impegnata a portare al 26-27% la percentuale di popolazione in possesso di un diploma di istruzione superiore”16.

Spesa per studente e diritto allo studio

Dalle rilevazioni OCSE, quanto a spesa cumulativa per studente per tutto il corso degli studi, l’Italia è al 16° posto su 25 Paesi considerati. In particolare, già nel 2008, come evidenzia il Rapporto sui laureati AlmaLaurea (marzo 2012), il costo totale per laureato, comprensivo dei costi connessi alla durata effettiva degli studi e di quelli riguardanti gli abbandoni, in Italia è inferiore del 31% rispetto a quello medio europeo. Nel periodo 2000-2008, l’incremento del costo totale per studente è in Italia pari all’8% contro una media dei paesi OCSE del 14% e dei Paesi UE19 del 19%.17

 

In particolare, la spesa per il diritto allo studio ha subito un andamento contrario a ogni dichiarazione di principio: il fondo nazionale disponibile per finanziare le borse di studio tra gli anni 2009-2011 ha subito una riduzione che ha comportato una diminuzione degli studenti che hanno usufruito della borsa dall’ 84% al 75% degli aventi diritto”18 .

 

Diminuzione delle immatricolazioni

A fronte dei dati precedenti, è particolarmente preoccupante la tendenza, emersa negli ultimi anni, a una non trascurabile flessione delle immatricolazioni. Secondo i dati MIUR (Anagrafe Nazionale degli Studenti), gli immatricolati sono scesi da 338.482 (nel 2003-2004) a 280.144 (nel 2011-2012), ciò che significa un calo di 58.000 studenti pari al 17% degli immatricolati del 2003, come se in un decennio fosse scomparso un Ateneo grande come la Statale di Milano con tutti i suoi iscritti. La diminuzione degli immatricolati è solo in minima parte compensata dalle iscrizioni di studenti stranieri, il cui numero, nel periodo 2003-2012, ha conosciuto una crescita costante, passando da 8.252 a 11.510” 19.

 

Sulla base delle rilevazioni OCSE, l’Italia occupa per spesa in educazione terziaria in rapporto al PIL il 32° posto su 37 Paesi considerati (dati 2009). Il Paese investe appena l’1,0% del proprio PIL nel sistema universitario contro una media UE dell’1,5% e una media OCSE dell’1,6%. Il ritardo dell’Italia si riscontra in tutto il quindicennio 1995-2009 analizzato dall’OCSE. Il grafico 4 mostra la spesa per l’educazione

universitaria in rapporto al PIL differenziata in componente del finanziamento di provenienza pubblica e privata. L’Italia ha un rapporto fra le due componenti pubblico/privato uguale a quello della media dei paesi europei.

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Grafico 4: Spesa per educazione universitaria in percentuale del PIL - dati 2009. Fonte OCSE, education at a glance 2012.

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Grafico 5: Evoluzione del fondo di finanziamento ordinario. Fonte CUN – dichiarazione per l’università e la ricerca, le emergenze del sistema, gennaio 2013

Il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), ovvero il finanziamento dello Stato all’Università pubblica, ha conosciuto una contrazione delle risorse tanto da essere, per il 2013, inferiore all’ammontare delle spese fisse a carico dei singoli Atenei. Il grafico 5 mostra l’andamento del FFO a valori correnti e a valori deflazionati fra il 1996 e il 2013. Si nota come in termini reali sia rimasto quasi stabile dal 2001 al 2009, per poi scendere del 5% in termini reali ogni anno, con un calo complessivo che per il 2013 si annuncia prossimo al 20%”20.

 

I Fondi Sovrani della Repubblica Popolare Cinese

Il primo Fondo Sovrano della Repubblica Popolare Cinese per dinamicità e livello degli investimenti sviluppati è il China Investiment Corporation (CIC) con una dotazione di 200 miliardi di dollari che è stato istituito nel 2007.

La creazione del Fondo Sovrano è stato l’esito di un lungo dibattito negli organi del Partito Comunista Cinese sulla destinazione delle grandi riserve valutarie accumulate dal Paese asiatico negli ultimi anni. A fine 2007 la riserve valutarie cinesi ammontavano a circa 1.500 miliardi di dollari21 e a fine 2008 a circa 1.950 miliardi di dollari22 .

Il CIC è posseduto e controllato dal Governo Cinese. Il management del Fondo rendiconta al Consiglio di Stato, il più importante organo amministrativo del Paese e al Premier.

Il secondo organismo cinese classificabile come Fondo Sovrano (Fos) è il Safe Investment Company, struttura posseduta e controllata dallo State Administration of Foregin Exchange (SAFE), l’Ente che gestisce le riserve ufficiali della Banca Centrale Cinese. La Safe Investment Company ha un attivo di 312 miliardi di dollari23.

Il terzo Fondo Sovrano cinese è il National Social Security Found istituito nel 2000, con caratteristiche di Fondo pensione che ha un attivo di 74 miliardi di dollari e che solo recentemente ha avuto l’autorizzazione ad investire all’estero il 20% delle proprie dotazioni finanziarie. Il National Social Security Found è posseduto e controllato da un’agenzia ministeriale creata dal Consiglio di Stato.

Per ultima vi è una struttura divisionale (assimilabile ad un Fos) della Hong Kong Monetary Authority denominato Investment Portfolio. La Investment Portfolio ha una dotazione finanziaria dei 170 miliardi di dollari ed è autorizzata ad operare investimenti all’estero.

L’azione di questi Fondi Sovrani, che hanno enormi potenzialità di investimento, può essere interpretata come espressione di una importante e per certi versi preoccupante strategia di investimenti esteri in settori strategici che nel breve/medio periodo potrebbe portare il grande Paese asiatico a diventare uno dei più importanti investitori a livello mondiale.

Del resto appare evidente come a fianco della crescita del proprio potere economico la Cina voglia far crescere il proprio peso politico a livello mondiale. Questa strategia appare piuttosto evidente nelle iniziative intraprese dal Paese asiatico sullo scacchiere mondiale ed in modo particolare verso i contenti “nuovi” come l’America del Sud e l’Africa.

A conferma di questa ipotesi si potrebbero addurre molte circostanze, basterà però che ne ricordiamo una che è riferita al continente sudamericano. Il 30 luglio 2007 sul giornale “Iberoamerica Empresarial” veniva riportato un articolo dal titolo “China sucede a EU y Europa como gran socio commercial e investor en Latinoamerica”. L’articolo rimarcava l’intenzione comunicata da autorevoli rappresentanti del Governo cinese di investire nella regione 50 miliardi di dollari e sottolineava la preoccupazione espressa dall’OCSE che segnalava quel comunicato dei rappresentanti cinesi come un tentativo di confondere i Paesi latinoamericani allo scopo di interferire in rapporti commericiali e finanziari consolidati tra i Paesi latinoamericani e l’Europa.

 

 

Cos’è l’OCSE

Nel 1948 viene fondata l’Organisation for European Economic Cooperation - OEEC (OECE in italiano) i cui Paesi membri fondatori sono: Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Islanda, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Olanda, Norvegia, Portogallo, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia, Gran Bretagna, USA.

Il 30 settembre 1961 l’OEEC si riorganizza e trasforma nell’odierna Organisation for Economic Co-operation and Development - OECD (OCSE in Italiano) nella quale entrano a far parte: Giappone (1964), Finlandia (1969), Australia (1971), Nuova Zelanda (1973), Messico (1994), Corea del Sud (1996), Repubblica Ceca (1995), Polonia e Ungheria (1996), Slovacchia (2000). Nel 2010, il Cile e l'Estonia sono divenuti membri e sono stati invitati a far parte dell'Organizzazione, anche Israele e Slovenia.

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Uno sguardo sul futuro

Il rapporto dell’OCSE “Looking to 2060:long.term global growth prospects” è il risultato di un nuovo metodo, elaborato dall’organizzazione, di proiezione dei dati relativi i diversi componenti che costituiscono la base per la definizione del Prodotto Interno Lordo (PIL) dei Paesi aderenti all’OCSE e dei maggiori (per peso economico) Paesi non OCSE, su uno scenario proiettato ai prossimi 50 anni allo scopo di evidenziare la situazione e i cambiamenti che inevitabilmente si determineranno nelle economie a livello mondiale.

Il metodo utilizzato prevede due scenari complessi. Il primo basato su riforme economiche strutturali graduali in grado di stabilizzare il rapporto debito/PIL e ridurre seppur molto gradualmente il debito pubblico dei principali Paesi dell’OCSE, mentre il secondo scenario presuppone riforme più profonde ed efficaci nelle politiche pubbliche dei Paesi aderenti all’OCSE.

Una delle conclusioni più importanti cui arriva il rapporto è che la crescita dei Paesi facenti parte del gruppo cosiddetto dei G2024, non membri OCSE, continuerà a superare quella di Paesi membri OCSE, ma che il differenziale di crescita tra i gruppi, oggigiorno molto elevato, diminuirà sensibilmente nel corso dei prossimi decenni.

Parallelamente i prossimi 50 anni vedranno dei cambiamenti estremamente rilevanti nella composizione dell’economia a livello mondiale.

Le conclusioni del rapporto evidenziano come, in assenza di riforme ambiziose da parte dei Paesi OCSE, potrebbero crearsi squilibri pericolosi a livello mondiale che potrebbero minare lo sviluppo di non pochi Paesi.

Il rapporto mostra come, una volta superata la crisi globale che travaglia il mondo occidentale, il PIL globale del mondo dovrebbe complessivamente crescere di circa il 3% all’anno nei prossimi decenni.

Questo sviluppo, sostenuto dalla crescita sempre molto accentuata dei Paesi emergenti, dovrebbe permettere di progredire nelle riforme strutturali economiche e fiscali nei Paesi dell’OCSE.

Lo sviluppo economico dei Paesi non OCSE continuerà a crescere a ritmi superiori a quello dei Paesi membri dell’organizzazione, ma il delta differenziale si prevede in diminuzione dall’attuale 7-8% al 5% entro il 2020 e dovrebbe attestarsi intorno a circa il 2,5% dopo il 2020, mentre il trend medio di sviluppo economico dei Paesi OCSE dovrebbe passare dall’1% al 2%.

I cambiamenti economici a livello mondiale saranno rilevanti, infatti il PIL di Cina e India misurato sulla base dei dati fino al 2005, supererà prima del 2020 quello delle economie dei Paesi facenti parte del gruppo G725 e quello di tutti i Paesi OCSE entro il 2060.

Nonostante il veloce sviluppo dei Paesi emergenti persisteranno profonde differenze sugli standard di vita di questi Paesi rispetto ai Paesi membri OCSE fino al 2060.

Cina ed India sperimenteranno entro il 2060 una crescita che vedrà moltiplicarsi di ben 7 volte il loro PIL, ma lo standard di vita in questi Paesi come negli altri Paesi emergenti, crescerà solo di un quarto del 60% del livello degli standard di vita dei Paesi leader dell’area OCSE.

In assenza di riforme politico-economiche strutturali profonde, squilibri crescenti potrebbero determinarsi nell’area OCSE e fenomeni di crisi, come quella che caratterizza questa fase storica, potrebbero tornare a manifestarsi anche prima del 2030.

Gli estensori del rapporto precisano che molte variabili che potrebbero influire significativamente sugli sviluppi futuri dei sistemi economici sono state trascurate perché impossibili da valutare nelle loro specifiche ed imprevedibili determinazioni.

Tra questi fattori ignorati spiccano elementi molto rilevanti tra cui: possibili rotture di matrice politica nell’andamento del commercio internazionale , difficoltà nell’approvvigionamento di materie prime, fenomeni politici che potrebbero influire sull’economia di singoli Paesi o di intere aree geopolitiche.

Il rapporto è fondato su una proiezione dei fattori economici che concorrono nella definizione del PIL sulla base dei trend fino al 2005 e su una visione “relativamente benevola” e costante dell’andamento dell’economia a livello mondiale.

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Bibliografia

  • A. Quadrio Curzio, V. Miceli, “I fondi sovrani”, Il mulino, Bologna, 2009;

  • B.Buzan, “Il gioco delle potenze. La politica mondiale nel XXI secolo”, Egea, Milano, 2006;

  • Consiglio Universitario Nazionale (CUN), “Le emergenze del sistema”, Gennaio 2013

  • E.Luttwak, “Il risveglio del drago”, Rizzoli, Milano, 2012;

  • IBID;

  • I. Bremmer, “La fine del libero mercato”, Il Sole 24 Ore, Milano, 2010;

  • Mincer, 1974; Psacharapoulos e Patrinos, 2004;

  • Morrisson, Murtin, "The Century of Education," CEP Discussion Papers dp0934, Centre for Economic Performance, LSE, 2009;

  • National Intelligence Council. “Global trend 2005: a transforms world”, November 2008;

  • OCSE Economic Policy Payers n.3, A.Joahnsson et. al. “Looking to 2060: long term global growth prospects”, 2012;

  • OCSE: What is the global economic out look? 27 novembre 2012 by A. Guarrìa, Segretary General e P. C. Padoan, Deputy Segretary General and Chief economist;

  • Zhang Monan, “La nuova forma dell’economia cinese” in Finanza e Diritto, 13 dicembre 2012.

 

Note:

    1 OCSE Economic Policy Payers n.3 A. Joahnsson et. al. “Looking to 2060: long-term global growth prospects”,2012.

    2 OCSE “What is the global economic outlook” novembre 2012 by A.Guarrìa e P.C. Padoan.

    3 National Intelligence Council, “Global trend 2025: a trasformes world”,novembre 2008.

    4 I grandi Fondi Sovrani della Repubblica Popolare Cinese son il China Investement Corporation (CIC), il Safe Investment Company, il National Security Fund e l’Investment Portfolio della Hong Kong Monetary Authority.

    5 Zhang Monan, “La nuova forma dell’economia cinese” in Finanza e Diritto, 13 dicembre 2012.

    6 l’età lavorativa o età attiva compresa tra i 15 e i 64 anni

    7 è il rapporto percentuale tra la popolazione con età maggiore o uguale a 65 anni e la popolazione in età attiva.

    8 L'aumento dell’indice di dipendenza degli anziani citato è stato calcolato su un limite di età fissato a 65 anni. Tale indice può essere considerato poco ottimistico in quanto è probabile che l’aumentare della longevità sia proporzionale ad un aumento della soglia dell’età attiva, ovvero dell’età nella quale un individuo entra per la prima volta nel mondo del lavoro con modalità occasionale.

    9 È rapporto tra la popolazione fino al 14 anni e quella in età lavorativa. Indica la percentuale di giovani di cui deve farsi carico la parte di popolazione attiva

    10 Mediamente quattro anni di scolarizzazione nel periodo tra il 1970 e il 2010

    11 Morrisson, Murtin, "The Century of Education," CEP Discussion Papers dp0934, Centre for Economic Performance, LSE, 2009

    12 in linea con i dati relativi gli aspetti microeconomici e macroeconomici (Morrison e Murtin 2010) l'ipotesi sulle rendite derivanti dalle proiezioni si riferisce ad un rendimento medio del 10% -13% per l'istruzione primaria e del 6% -7% per l'istruzione secondaria superiore e terziaria.

    13 Si prevede un aumento medio di due anni di scolarizzazione nei prossimi 50 anni.

    14 attualmente detiene il più alto livello di istruzione (25-29 anni) dei Paesi emergenti

    15 Mincer, 1974; Psacharapoulos e Patrinos, 2004

    16 Consiglio Universitario Nazionale (CUN), “Le emergenze del sistema”, Gennaio 2013.

    17 IBID

    18 Osservatorio regionale per l’università e per il diritto allo studio universitario, Regione Piemonte

    19 Consiglio Universitario Nazionale (CUN), “Le emergenze del sistema”, Gennaio 2013.

    20 Consiglio Universitario Nazionale (CUN), “Le emergenze del sistema”, Gennaio 2013.

    21 Stima del Fondo Monetario Internazionale (FMI). Queste riserve derivano dal surplus della bilancia commerciale che si sono determinati e dai flussi di investimenti diretti dall’estero.

    22 Stima dell’Economist.

    23 Stima del FMI.

    24 Paesi membri: G8 (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Stati Uniti d'America, Russia), BRICS (Brasile, Cina, India, Sudafrica; Altri Paesi: Australia, Arabia Saudita, Argentina, Corea del Sud, Indonesia, Messico, Turchia), Commissione dell’Unione Europea. Paesi membri non riconosciuti: Spagna e Paesi Bassi.

    25 È il vertice dei capi di governo delle sette nazioni più industrializzate del mondo (almeno al momento in cui fu costituito). Esso è nato nel 1976, quando il Canada aderì al Gruppo dei Sei (Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti). Dal 1997 è stato affiancato dal G8, il vertice dei capi di stato dei Paesi già menzionati allargato alla Russia.

     

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