bollino ceralaccato

L'equivoco della CSR

Un equivoco aleggia nell’aria a proposito della Responsabilità Sociale: le grandi aziende se ne occupano, le piccole no. Per comprendere dove si annida l’incomprensione, facciamo una piccola premessa a proposito di cosa è per noi, e cosa invece comunemente s’intende, la CSR.

 

Un equivoco aleggia nell’aria a proposito della Responsabilità sociale: le grandi aziende se ne occupano, le piccole no.

Per comprendere dove si annida l’incomprensione, facciamo una piccola premessa a proposito di cosa è per noi, e cosa invece comunemente s’intende, la CSR. Le grandi aziende operano in un contesto sociale, i loro dipendenti, i fornitori, i consumatori, i vicini, coloro che subiscono o godono delle conseguenze del loro operato, ecc., alla stregua di un corpo estraneo. Oggi vengono richiamati, con sempre maggior voce, alla loro responsabilità di buon vicinato.

“Voi producete ricchezza per coloro di noi che sono clienti e fornitori, ma gli altri? Che fate per gli altri che non cadono in queste categorie privilegiate?” Sembrano sentirsi dire le aziende da questa fantomatica società che compare nei sogni di qualche top manager nelle vesti di una vecchia decrepita col dito alzato in segno di rimprovero. Ecco allora prodigarsi in programmi “sociali”, dal brefotrofio in Papuasia alle borse di studio dei figli dei dipendenti, passando per il restauro dell’oratorio della parrocchia vicino la fabbrica e la sponsorizzazione della mostra del pittore che dipinge con i piedi (poco importa poi che lo faccia perché dotato di braccia o meno).

Ovviamente affinché tale sforzo dia un risultato deve essere rappresentato, pubblicizzato, celebrato e, soprattutto, tenuto, in quanto attività accessoria, il più lontano possibile dal “core business” dal “valore per gli azionisti” davanti al quale quei top manager si inginocchiano la sera, prima di dormire, ringraziandolo per i lauti guadagni e denunciando la loro infima natura di stipendiati, né più né meno come l’ultimo dei loro uscieri ma con diversi zero in più sul proprio conto.

La vecchia non compare più nei loro sogni, la vedono ora di spalle, non si capisce se paga o delusa da quello che hanno fatto, ma almeno li lascia in pace, e questo è quello che conta. Inoltre il giorno dopo scoprono con grande piacere che l’esercizio retorico della CSR ha prodotto anche un risultato positivo, concreto, “misurabile” in termine di ROI, come piace tanto a loro: un maggior numero di investitori, composti da personaggi con analoghi incubi, hanno acquistato titoli dell’azienda, facendone salire il valore, grazie all’ingresso nell’indice Dow Jones ISCNFIP (Io Sì Che Non Fotto Il Prossimo).

La CSR allora sembrerebbe una sorta di costoso Valium per manager con problemi d’insonnia da residue tracce di coscienza: prendere una volta l’anno, preferibilmente prima del bilancio annuale. Ancora una volta, come sempre, a partire da una pura e sterile retorica, che però genera danaro, si sviluppa il mercato dei “servizi alla retorica”, totalmente inutili se non a chi li fa: redazione dei bilanci sociali, che sembrano edite dalle Edizioni Paoline, con grande rispetto per questa casa editrice, ricerche sulla responsabilità, il cui unico scopo è stimolare la spesa delle aziende a favore di chi fa tali ricerche e dei suoi sponsor, eccetera.

Contemporaneamente le aziende vanno “in vacca”, per evitarlo sono costrette a metodi sempre meno “sociali” per continuare a fare il loro mestiere, tipo: delocalizzarsi “sfruttando” costi di mano d’opera più bassi e popolazioni non tutelate in luoghi lontani, fondersi, licenziando e creando nuove povertà in luoghi vicini, eccetera, ma mantenendo una facciata da buoni e bravi cittadini che si sentono responsabili verso la società in quanto fanno la carità e, come ho letto sul sito di, “pagano le tasse” (E ci mancherebbe pure!).

Questa è la “Responsabilità Sociale” come definita dalla logica trombona e anglofila delle grandi aziende e i loro parassiti, di cui biologicamente è sempre circondata. In questo contesto l’affermazione più ricorrente, nelle migliori “Corti Accreditate”, è: le PMI non possono fare CSR perché non hanno soldi, in quanto costo, e non sono quotate in borsa, dunque non ne avrebbero nemmeno un beneficio finanziario. E meno male!

Già, perché se anche loro si mettessero a perder tempo come i grandi a mettersi a posto la coscienza, o a far finta di averla, chi lavorerebbe in questo paese? Ma allora la Responsabilità sociale è una perdita di tempo? Sì se viene fatta come la fanno molte grandi aziende!

Forse è arrivato il momento di creare un neologismo, trovare una nuova parola che indichi davvero quale dovrebbe essere la vera, feconda attività che ogni soggetto economico dovrebbe fare sempre, e che è proprio quella che, contrariamente a quel che si pensa, fanno le piccole aziende.

Quando nasce un nuovo soggetto economico, per definizione è piccolo. Inizia a fare i primi passi in uno spazio, che tutti noi abbiamo banalmente chiamato “mercato”, nel quale vi sono certamente portatori di potenziali interessi economici, ma confusi, gli uni tra gli altri. L’imprenditore lo sa e si rivolge a questo contesto, che è la società in cui lui vive, come persona fisica e giuridica, per ricavarne ispirazione: migliore definizione dell’offerta, più chiaro profilo dell’interlocutore economico, sia esso cliente che fornitore, identificazione dello spazio competitivo privo di concorrenti, eccetera.

I suoi tentativi di sviluppo del sociale, al quale sente di dover contribuire, unico dazio da pagare, sono la vera “Responsabilità Sociale” che però, nel suo caso, è necessità. Se non capisce chi sono, tra i tanti, i suoi clienti, chi potrebbero diventarli e oggi sono solo potenziali, in quali spazi prosperare senza distruggere relazioni, eccetera, o muore o prospera perché affiliato ad una cosca mafiosa interessata ad un’attività lecita per riciclare denaro.

La sua attività di “Interazione e sviluppo reciproco del sociale” non ha bisogno di essere celebrata: è motivo di sopravvivenza, discriminante tra il successo e il fallimento, la vita e la morte. I tromboni di corte, i nani buffoni e ballerine al servizio dei signori, non hanno la possibilità di accorgersene. Per loro il problema, qualora non ci fosse pane, sarebbe quello di scegliere il tipo di brioche da consumare!

Ma continuiamo il nostro ragionamento e supponiamo che il nostro imprenditore, grazie ad un’oculata e saggia politica sociale, che poi altro non era che strategia d’impresa, abbia successo. Il prodotto è definito, i clienti sono emersi, le catene di fornitura collaudate, parte la macchina dei soldi!

Soldi che servono ad accedere a più clienti, aumentare i prodotti, migliorare la supply chain… e produrre altri soldi, che ne produrranno altri e poi altri e altri ancora fino a radicare la convinzione, nell’imprenditore o chi ne ha preso il posto, borsa, investitore istituzionale o, per loro delega, l’amministratore imbecille di turno, di aver capito come funziona il mercato, di avere la ricetta del re Mida, praticamente di essere il dio in terra!

Per nostra fortuna la società, non quella stupidaggine che ne è la sua deforme ombra riflessa su uno specchio d’acqua increspato e che ci ostiniamo a chiamare mercato, è fatta di individui che hanno una loro volontà autonoma e imperscrutabile, cangiante, lentamente ma inesorabilmente, di forma, dimensione, composizione. La totale autoreferenzialità nella quale è piombata “l’azienda di successo” la condanna ad un’immobilità letale per il contesto sociale mutevole nel quale opera il quale, pian piano, senza troppi schiamazzi, si allontana da lei: prima col consenso, poi con la volontà di rifornirla, infine col gradimento della scelta.

Forse la “CSR retorica” è un modo per, avendo percepito il primo stadio della decadenza, cercare di recuperare quel consenso che sente essere l’inizio della fine, ma non è sufficiente.

La soluzione è l’innovazione, farsi nuovi, nascere ancora. Ma quando si nasce si è piccoli, dunque innovare significa ritornare a ragionare come i piccoli, attenti al contesto in cui si opera perché da esso verranno le speranze di crescita o la condanna a morte sicura.

Interagire e sviluppare il sociale beneficia il contesto e questo, grato, remunera l’azienda, in un circolo virtuoso che si spezza solo quando al posto di tale “responsabilità” subentra l’autoreferenza, la presunzione, la strafottenza, così tangibile nei siti della maggior parte delle grandi aziende, nelle dichiarazioni dei suoi manager.

E allora nei bilanci sociali, nei siti, nelle dichiarazioni dei manager, nei loro programmi di CSR, è questa la socialità che vorremmo veder rappresentata: siamo in mezzo a voi tutti, da voi dipendiamo, siete la nostra musa ispiratrice, chiamateci tutti, risponderemo a tutti, solo insieme a voi noi potremo sopravvivere, da soli moriremo…

Che non è né più né meno quello che fa un qualsiasi piccolo imprenditore appena nato… senza fare bilanci sociali!

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