bollino ceralaccato

Il rapporto dialettico persona-organizzazione. Tavola rotonda immaginaria tra passato, presente e possibilità future.

Buongiorno a tutti. Benvenuti a questa tavola rotonda internazionale che riguarda il tema del rapporto persona-organizzazione: un rapporto sempre più insidiato dalla crescente incertezza che caratterizza la nostra epoca. E’ proprio in momenti come questo che solitamente occorre prestare ancor più attenzione a conciliare bisogni apparentemente contradditori quali quelli individuali e quelli organizzativi.

 

Da sempre la vita organizzativa, in buona sostanza, si esprime nella ricerca di un equilibrio ottimale tra indipendenza e dipendenza, ovvero tra possibilità per le persone di esprimere pienamente la loro soggettività e necessità aziendale di promuovere senso di appartenenza, coesione di gruppo e collaborazione. Proprio in questa direzione il presupposto da cui vogliamo partire si concretizza nella seguente domanda: “un’organizzazione ha soltanto la funzione di eguagliare e tipicizzare o anche di individualizzare, di promuovere quei caratteri e quelle modalità di comportamento per le quali una persona si differenzia da tutti gli altri membri che la compongono?”2 Prima di iniziare un caldo invito a tutti i relatori affinchè il dialogo sia aperto, civile e pacato. A tal finel fine lasciamoci guidare dal seguente pensiero di S.I. Hayakawa “se in una situazione riesci a vedere solo quello che tutti riescono a vedere, rappresenti talmente bene la cultura a cui appartieni, che ne sei vittima."  

(inizia Russell)3
Ritengo che siano di assoluta importanza entrambe le funzioni; qualsiasi organizzazione deve necessariamente sia tipicizzare, sia individualizzare. Infatti se da un lato “pochi uomini possono essere felici in solitudine, ancor minore è il numero di coloro che possono essere felici in una comunità che non consenta libertà di azione individuale. Senza controllo c’è anarchia e senza iniziativa c’è ristagno.” 

(interviene Nietzsche)
Questione di punti di vista, ovviamente, io mi sento di dire che “nella solitudine il solitario divora se stesso, nella moltitudine lo divorano i molti. Ora scegli”. 

(interviene Rand)4
Io scelgo senza ombra di dubbio l’individualismo: “l’uomo che non dà valore a se stesso non può dar valore a nulla né a nessuno. In termini di vantaggi la competizione egoistica ne apportrebbe a tutti i livelli”.  

(interviene Russell)5
Già la competizione! “Dall’origine dell’uomo, è stata lo sprone alle attività più serie e importanti. Dai tempi antichi fino ai nostri moderni la guerra è stata il meccanismo principale che ha condotto all’ingrandimento delle comunità e la paura ha preso sempre più il posto della solidarietà tribale come fonte di coesione sociale”.

(intervengono Ostrom; Fehr e Schmidt)6
E se competizione e cooperazione fossero entrambe necessari alla società? Abbiamo formulato un modello sociale secondo il quale in ogni  gruppo, comunità, organizzazione o società che si voglia, sono presenti tre modelli di attore: gli egoisti razionali, i reciprocatori semplici e i cooperatori forti. In estrema sintesi: “gli egoisti razionali agiscono e compiono scelte in modo auto-interessato e tentano di ottimizzare i mezzi a disposizione in relazione ai propri scopi. In sostanza in presenza di un problema di azione collettiva, un egoista razionale, non solo non coopera mai, ma, anche nel caso gli fosse offerta la possibilità di sanzionare i non cooperatori non la utilizza. 
I reciprocatori semplici tentano inizialmente di cooperare e rispondono con la cooperazione alla cooperazione e con la defezione alla defezione dei soggetti con cui interagiscono. I reciprocatori semplici puniscono i free-rider con cui si trovano ad interagire in quanto ciò costituisce un atto di reciprocità negativa nei confronti della loro mancata cooperazione.
I cooperatori forti tendono a cooperare sempre in presenza di un problema di azione collettiva. Ciò può essere dovuto tanto a convinzioni morali che privilegiano il benessere del gruppo su quello dell'individuo, quanto a comportamenti di segnalazione dispendiosa. Inoltre, i reciprocatori forti sono sempre disponibili a subire un costo personale per punire i free-rider, indifferentemente dall'effetto pratico di tale azione”.

(moderatore)
Però mi risulta, consultando la letteratura e in particolare Ahn, McCabe e Smith ed anche Kiyonari, che la percentuale stimata degli egoisti razionali sia alta, precisamente compresa tra il 40% e il 60% dei soggetti. Come del resto una stima plausibile della percentuale dei reciprocatori semplici include in tale categoria il 30-40% dei soggetti. Ciò sembrerebbe testimoniare che i cooperatori forti sono presenti in numero del tutto esiguo.

(interviene Gambetta)7
Oltretutto occorre anche considerare che “un comportamento cooperativo non è necessariamente segno di una mentalità cooperativa, visto che potrebbe trattarsi di cooperazione accidentale piuttosto che intenzionale”, oppure essere il prodotto di due insiemi di motivazioni egoistiche. Per darvi un idea più precisa diciamo, semplificando al massimo, che poterbbe trattarsi di  “macromotivazioni egoistiche”, ovvero quelle prodotte sostanzialmente dalla “paura delle sanzioni”, “che pertanto generano la motivazione generalizzata a cooperare”; come però potremmo essere in presenza di “micromotivazioni egoistiche”, ovvero “giudizi personali di convenienza per il tornaconto che posso avere, quindi la persona valuterà volta per volta, ma non ha una disposizione generale alla cooperazione”.

(interviene Bravo)8
“Dobbiamo comunque essere cauti e considerare solo la possibilità di utilizzare i modelli proposti. Una loro conferma empirica - effettuata tramite studi in laboratorio e, possibilmente, sul campo - manca ancora, così come è probabile che successivi affinamenti permetteranno di tenere in considerazione anche elementi finora non contemplati”. 

(intervengono Hofstede e Trompenaars)9
Siamo sostanzialmente d’accordo sull’invito alla cautela, anche se in effetti dobbiamo dire che alcune nostre ricerche multiculturali hanno confermato come alcuni paesi sono caratterizzati da elevata competizione e, in prticolare l’Italia, sia una nazione in cui:

  • viene enfatizzato il lavoro individuale rispetto al lavoro di gruppo;
  • viene posta forte enfasi sulle differenze di status e di potere, aspetto che comporta la forte influenza nelle decisioni di chi ricopre formalmente un ruolo di autorità nella scala gerarchica;
  • le relazioni vengono gestite in modo affettivo, cioè basandosi sulle emozioni e sull’espressione di sensazioni e sentimenti piuttosto che su elementi oggettivi e comportamenti distaccati.


Le principali conseguenze di questi riultati sono:

  • l’individualismo è correlato con la ricerca di indipendenza e la ricerca del potere focalizzata sul perseguire obiettivi personali, pertanto c’è forte tendenza competitiva tra le persone;
  • la competitività unita alla forte enfasi posta sulle differenze di status e di potere porta le organizzazioni a  privilegiare specializzazione e standardizzazione attraverso l’introduzione di molte procedure, regole e norme da seguire per contenere, da un lato, l’alta diversità prodotta dall’individualismo e, dall’altro, la spinta a ricercare il potere. In altre parole per limitare le competenze delle persone in un’ottica di facilitazione del loro controllo.


(interviene Sangiacomo)10
Non mi stupisco di queste conferme, “in seno alla collettività è opportuna, se non necessaria, una congrua percentuale di egoisti. Non potendo giustificare tale convinzione né con l'arma della logica, né con dati statistici, mi limito a constatare come esista una serie di azioni non altruiste, che la stessa tendenza avversa dell'egoismo considera attinenti alla sfera del bene. Tali azioni sono estranee al campo dell'altruismo, perché prive del sentimento caritatevole o perché non del tutto disinteressate. L'abitudine di eseguire a regola d'arte il lavoro, ad esempio, nasce dall'amor proprio e nondimeno giova all'interesse comune”.

(interviene Friedberg)11
Questo mi smbra proprio un caso limite. In generale ciò che possiamo notare è come “ogni organizzazione pone i suoi membri in una posizio-ne di interdipendenza squilibrata e aperta, in cui ogni partecipante necessita del contributo degli altri. Ma, nella misura in cui tutti i partecipanti conser-vano anche un margine di libertà, ossia un minimo di autonomia, gli apporti degli altri sono tutt'altro che automatici. In realtà, nei limiti dell'autonomia reale che questi possiedono, tali apporti dipendono dalla loro buona volon-tà, la quale non è mai scontata ma deve essere ottenuta attraverso un accor-do, un do ut des e scambi negoziati (siano essi espliciti o, com'è il più delle volte, impliciti) In sintesi, le condotte spontanee degli uni, adottate in funzione dei vinco-li da essi percepiti nella loro specifica situazione, non solo non corrispondo-no sempre a quelle di cui gli altri avrebbero bisogno, ma possono rappresen-tare addirittura l'opposto. Tant'è vero che il problema comune diventa pro-prio quello di mobilitare delle risorse al fine di ottenere dagli altri gli apporti di cui si ha bisogno. Tutti, volenti o nolenti, con piacere o viceversa di mala-voglia (e in tal caso di nascosto, come avviene il più delle volte), per riuscire nel loro compito, saranno condotti a influenzare vicendevolmente le loro condotte, cioè ad esercitare del potere gli uni nei confronti degli altri. La cooperazione degli attori intorno a problemi e alle loro soluzio-ni, dunque, è sempre sottesa da rapporti di dipendenza e di potere, cioè da relazioni di scambio negoziato mediante le quali ogni attore cerca di vende-re i suoi comportamenti agli altri nel modo più vantaggioso, possibile, così come egli acquista da essi al prezzo più basso possibile i comportamenti di cui necessita. Ognuno cerca di influenzare e di modificare il comportamento dell’altro per soddisfare le proprie necessità”. 

(interviene Maier)12
Oh! Finalmente qualcuno ha avuto il coraggio di toccare il punto focale, ma io andrei anche oltre: sappiamo tutti che “la lingua parlata dall’impresa nega l’individualità annegandola in un formalismo di facciata. L’impresa è, per sua definizione, il luogo dell’esclusione e chiunque non sia completamente medio può essere soltanto tollerato. E’ così che in azienda si riproducono le stesse barriere della società cui essa appartiene”. Altro che attenzione a individualizzare.

(moderatore)
Sento dei mormorii a seguito di questo provocatorio intervento; vi invito a controbattere apertamente. Forse state prendendo sin troppo alla lettera il mio invito inizaile alla civiltà e alla pacatezza.

(interviene Depolo)13
E’ “evidente che ogni organizzazione ha l’obiettivo di far sì che i comportamenti dei propri membri si avvicinino il più possibile a quelli che vengono ritenuti più adatti al raggiungimento degli obiettivi della struttura”.

(intervengono Quaglino, Casagrande, Castellano)14

“Il nodo cruciale dell’appartenenza organizzativa è costantemente rappresentato dall’abilità di mantenere il giusto equilibrio tra il bisogno di indipendenza e il bisogno di condivisione, affiliazione e integrazione. Il bisogno di equilibrio è soddisfatto dalla leadership, che è la funzione che bilancia membrship e groupship; la funzione che garantisce e presidia sia la soddisfazione dei bisogni individuali sia di quelli del gruppo, permettendo alle forze che spingono alla differenziazione e all’omologazione di formare un insieme armonico, una risultante positiva, con un equilibrio che non può essere che quasi stazionario.”

(moderatore)
A questo punto mi domando e vi domando se l’enfasi posta sulla leadership quale elemento di armonizzazione tra la differenziazione ricercata dalle persone e l’omologazione ricercata dall’organizzazione non possa essere una conferma indiretta della forte competitività emersa anche dalle ricerche precedentemente menzionate? Come pure l’enfasi posta sul teamwork, la collaborazione e la condivisione, solo per citare alcuni temi, non possa essere una conferma dello spiccato individualismo, anch’esso evidenziato dalle medesime ricerche?

(interviene Macintyre)15
Io credo di sì, tanto che una delle mie convizioni è che l’uomo deve sviluppare due tipi di virtù: quelle del ragionamento umano indipendente e della dipendenza riconosciuta. Per meglio chiarire “all’uomo sono richieste sia quelle virtù che ci rendono capaci di essere agenti razionali indipendenti e responsabili sia quelle virtù che ci mettono in grado di riconoscere la natura e la portata della nostra dipendenza dagli altri. L’individuo deve imparare a conoscere mediante l’esperienza gli ambiti vuoi dell’indipendenza vuoi della dipendenza dagli altri nei differenti stadi della nostra vita. Ovvero apprendere ad individuare il proprio spazio all’interno di una rete di dare e ricevere ove l’ottenimento del bene di un individuo è inteso inseparabilmente dall’ottenimento del bene comune. La questione di fondo è di quali risorse ogni individuo e ogni gruppo hanno bisogno, per apportare il proprio particolare contributo al bene comune e che è nell’interesse di tutti che ciascuno sia messo in grado di offrire il proprio contributo”.

(interviene Gambetta)16
Del resto “per produrre pratiche continuative di cooperazione, le persone devono in un modo o nell’altro essere motivate ad assumere posizioni di dipendenza”.

(intervengono Cecchin e Apolloni)17
In effetti pensiamo a cosa implica il narcisismo; “il narcisismo implica, oltre che l’idea della superiorità e del potere sugli altri, anche l’illusione dell’indipendenza dagli altri, intesa come possibilità di poterne fare a meno. La reificazione di se stessi è la lontananza che il narcisista mette tra sé e il prossimo, è la presunzione che tutto ciò che non sia sé, sia oltre che inferiore, anche inutile, non essenziale, che se ne possa fare a meno, per cui il narcisista nega, disprezza, rifiuta e sfrutta tutto ciò che è altro da sé”. 

(interviene Lasch)18
“Al giorno d’oggi la cultura del narcisismo nasce non dall’egoismo e dall’egocentrismo, che presuppongono un’individualità sovrana, forte, ma da una individualità minacciata dall’incertezza del futuro. In questa prospettiva l’occuparsi di se stessi assume il significato di una preoccupazione per la propria sopravvivenza psichica. La preoccupazione oggi così diffusa per l’identità rivela in parte questa difficoltà nel definire i confini dell’individualità. Il conseguimento dell’individualità, che la nostra cultura rende tanto difficoltoso”.

(interviene Macintyre)19
“Il punto è evitare di diventare preoccupati-di-noi-invece-che-degli-altri, ma anche evitare di diventare preoccupati-degli-altri-invece-che-di-noi-stessi. In questo modo la mia relazione con gli altri potrà essere di due tipi. Ci saranno da un lato quelle relazioni stabilite in vista dei vantaggi dei partner e giustificate in base a questi: saranno relazioni di contrattazione, governati dai precetti derivati dalla teoria della scelta razionale. Ci saranno dall’altra parte quelle relazioni che sono il risultato di accordi partecipativi, di coinvolgimenti affettivi che sono stati assunti volontariamente.”

(interviene Messina)20
In base alla mia esperienza sportiva posso dirvi che “i giocatori sono uguali e diversi allo stesso tempo. Sono uguali perché a tutti viene richiesto di fornire il massimo nel-le loro prestazioni, ma sono diversi nel talento e quindi nel ti-po di prestazione che ci si attende da loro; in più sono diversi per ciò che hanno già dimostrato di saper fare. Sono uguali perché, in relazione alle loro possibilità, si ri-chiede di dare il massimo. Sono diversi proprio perché le lo-ro capacità tecniche, fisiche e psicologiche sono diverse. Questo sistema regge fino a che il giocatore privilegiato gioca alla grande in partita. Nel momento in cui, ad esempio per un declino fisico, non è in grado di assicurare questo livello di rendimento, i compagni iniziano a pensare che l'eventuale privilegio è immotivato o ingiusto. È una cosa animalesca. Tu puoi anche saltare tutti gli allenamenti, ma, se in partita sei decisivo, accetto che tu sia lo Zar21. Per quanto concerne il tema della coesione a mio avviso dobbiamo necessariamente introdurre una considerazione sulla motivazione e la fiducia: “la motivazione di ogni giocatore verso il team gli viene dalla sensazione che attraverso i risultati del team può rag-giungere i propri obiettivi personali. La squadra in cui tutti si vogliono bene e fanno le cose con altruismo, non esiste. I giocatori sono motivati a giocare per la squadra solo se 1'obiettivo di vincere un titolo o giocare i play-off è considerato raggiun-gibile". Inoltre “se iniziano a dubitare del-le proprie possibilità di raggiungere l'obiettivo perché non si fidano dei compagni … è probabile che cerchino la propria utilità, perseguendo strategie individuali, privilegiando la visi-bilità personale al bene del team”.

(interviene Kets De Vries)22
Siamo in linea per quello che concerne condivisione di un obiettivo comune, rispetto e fiducia reciproci tra i membri e sostegno reciproco; ma non concordo sui privilegi. Affinché un lavoro in team sia efficace occorre “subordinare i propri obiettivi a quelli del gruppo. E poi le differenze di status costituiscono un ostacolo”.

(interviene Lorde)23
Non sono d’accordo “non sono le differenze tra di noi a separarci, ma è il nostro rifiuto a riconoscerle come tali”.

(interviene Vailati)24
Ma certamente: “tutti i tentativi per eliminare le differenze e stabilire l’omogeneità si rilevano illusori e servono, anzi, a moltiplicare ulteriormente le differenze che si volevano liquidare”

(interviene Lorenz)25
Consideriamo che “l’uomo non è stato costruito nel corso della filogenesi per essere trattato come una termite, elemento anonimo e intercambiabile di una collettività di milioni di individui assolutamente uguali tra loro”.

(interviene Galimberti)26
E consideriamo anche l’importanza di “evitare l’omologazione a cui tendono tutte le società conformiste”.

(interviene Wojtyla)27
“Nell’atteggiamento di conformismo è racchiusa anzitutto una certa arrendevolezza. L’uomo non crea la comunità, piuttosto si lascia portare dalla collettività. Il conformismo è la negazione della partecipazione. La vera partecipazione viene sostituita da un’apparente partecipazione, da un adeguarsi superficiale agli altri, senza convinzione e senza autentico impegno. Il conformismo porta con sé l’uniformità più che l’unità”.

(interviene Savater)28
“La comunicazione è possibile soltanto quando gli uomini sono diversi tra loro. La comunicazione ha inizio quando esistono persone diverse e distinte in grado di rifiutarsi o accettarsi”.

(moderatore)
A questo punto, però, mi chiedo se non siamo sempre al punto di partenza: ho la sensazione che, in fin dei conti, ci stiamo ancora dicendo che occorre tanto tipicizzare quanto individualizzare. Ognuno di noi sta spingendo verso una o l’altra posizione, ma mi sembra che non si sia riusciti ad aprire nessuna possibilità futura.

(interviene  PMP Techemon)29
La possibilità futura è già aperta; basta considerare che in contesti in continuo divenire, quasi mai esistono verità assolute e immutabili, quindi occorre rimettere costantemente in discussione le nostre convinzioni e le nostre certezze, cercando il modo di agire più rispondente al particolare momento storico che una società si trova a vivere. Sembra banale ma, in questo modo, l’ottica da cui si affrontano i problemi cambia notevolmente, poiché ogni visione, ogni punto di vista, ogni convinzione può essere ritenuta utile e proficua, ma solo se sono presenti precise condizioni di contesto. Cerco di farvi meglio capire cosa intendo ragionando sul tema che stiamo affrontando: il rapporto persona-organizzazione.

Non potrebbe essere che un moderato desiderio di competizione sia naturale e salutare tanto quanto un moderato desiderio di cooperare?. Le persone di natura non cooperativa hanno minore possibilità di sopravvivenza nel lungo termine, così come chi coopera ad un livello talmente elevato da non preoccuparsi dei propri interessi in un mondo competitivo. Come vi ho accennato prima, non si tratta di stabilire chi ha ragione in assoluto, bensì di stabilire quale punto di vista sia ottimale considerando cosa richiede di fare o come richiede di agire il particolare momento storico che si sta vivendo. 

Proviamo a leggere i risultati delle ricerche di Hofstede e Trompenaars in questa direzione: le persone sono mosse dall’individualismo e dalla competitività in misura così forte, magari proprio in quei contesti (sociali, culturali, organizzativi) che rendono tanto difficoltoso il conseguimento dell’individualità. Magari un tale comportamento potrebbe essere conseguenza di una disperata ricerca di identità e di valorizzazione e quindi di una decisa opposizione alla richiesta di integrazione e di fare squadra, in un momento storico di instabilità e mutevolezza nel quale tali richieste amplificano vissuti di uniformità e conformismo. Del resto sono propenso a credere che ciò che accade all’interno di un insieme di persone scaturisce, se non del tutto in buona parte, dalle dinamiche interne di un individuo, dai suoi atteggiamenti, dai suoi sentimenti e dai suoi valori; come dai suoi vissuti, dalle sue emozioni e dai suoi impulsi irrazionali.  

E allora, forse, in questo momento storico può essere fondamentale per le organizzazioni continuare a domandarsi se stanno manifestando la giusta disponibilità culturale a riconsiderare se stesse e i loro assunti.  Come uomo di organizzazione io mi domanderei costantemente, anche e soprattutto se penso di avere già delle risposte positive, se e quanto sto contribuendo a ricercare a 360° e in tutti i modi possibili i contributi potenziali che ogni singola persona può apportare all’evoluzione dell’organizzazione; e mi domanderei se e quanto mi sto impegnando a creare tutte le condizioni necessarie affinché ogni persona possa esprimere pienamente la propria soggettività ed apportare un significativo e distintivo contributo al successo dell’organizzazione; e mi domanderei se e quanto sto contribuendo a rigettare con la necessaria energia la specializzazione e la standardizzazione finalizzata a contenere l’alta diversità prodotta dall’individualismo, ovviamente contrastando la smodata e non realistica ricerca del potere; e mi domanderei se e quanto sto contribuendo a sviluppare la capacità, da parte della mia organizzazione, di rispondere anche con modalità inusuali alle innumerevoli e diversificate esigenze delle persone, evitando di dar corso a modelli gestionali che privilegiano l’omologazione e il conformismo, perché si preoccupano di rinforzare sempre e solo la messa in atto di alcuni ristretti comportamenti senza mai prendere in considerazione tutti quelli possibili. E non avrei timore di privilegiare chi se lo merita. E non avrei timore, agendo in questo modo, di negare il gruppo, la cooperazione, l’aiuto e il sostegno reciproco per raggiungere un obiettivo o un fine comune; anzi proverei a pensare se non sto aumentando le possibilità che questo avvenga. E proverei a pensare se la persona che sa di essere riconosciuta ogni giorno per la sua peculiarità non potrebbe essere maggiormente disposta ad agire nell’interesse generale, a concorrere secondo le proprie possibilità, al progresso dell’organizzazione. E proverei a pensare se sapendo che il mio contributo e il mio valore sono ampiamente e apertamente riconosciuti, non sarei meglio disposto ad accettare “l’ombra del gruppo”, perché in fin dei conti so di non essere un’anonima termite.

Se poi muta il momento storico, allora …

 

note

1 Una precisazione fatta per completezza: le frasi tra virgolette riportano fedelmente brani degli autori come sono stati da me letti su più fonti (testi, relazioni, internet, ecc.). Ciò che non è posto tra virgolette è una mia libera interpretazione di quello che ritengo avrebbe potuto aggiungere. Il tutto in linea con la totale virtualità di questa tavola rotonda. Mi scuso in anticipo con tutti le persone coinvolte, certo comunque della loro benevolenza.

2  Parafrasi di una frase in N. Elias, La società degli individui, Il Mulino, Bologna, 1990.
3  B. Russell, Autorità e individuo, Longanesi & C., Milano, 1962.
4  Ayn Rand; Le vitrù dell’egoismo, Liberilibri, Macerata, 1999.
5 B. Russell, op. cit.
6 Tratto da: Giangiacomo Bravo, Scimmie, uomini, pavoni un contributo interdisciplinare al problema della costruzione di un modello di attore sociale”, Testo in internet.
7 Diego Gambetta, Le startegie della fiducia, Einaudi, Torino, 1989.
8 Giangiacomo Bravo, op. cit.
9 Viene qui proposta una sintesi dei risultati emersi dalle ricerche che hanno operato in modo indipendente l’uno dall’altro. Testo di riferimento Schermerhorn, Hunt, Osborn, Organizational Behavior, Wiley, 2000.
10 OSSIMORO – sito personale di Ferruccio Sangiacomo – www.ferrucciosangiacomo.it
11 E. Friedberg, Il potere e la regola, Etas, Milano, 1994.
12 Corinne Maier, Buongiorno Pigrizia, Bompiani, Milano, 2005.

13 M. Depolo, Entrare nelle organizzazioni, Il Mulino, Bologna, 1988.
14 Quaglino; Casagrande; Castellano, Gruppo di lavoro lavoro di gruppo, RaffaelloCortina Editore, Milano, 1992.
15 A. Macintyre, Animali razionali dipendenti, Vita&Pensiero, Milano, 2001.
16 D. Gambetta, op.cit.
17 G. Cecchin; T. Apolloni, Idee perfette, FrancoAngeli, Milano, 2003.
18 C. Lasch, Io minimo, Feltrinelli, Milano, 2004.
19 A. Macintyre, op.cit.
20 M. Bergami; E. Messina, Dialogo sul team, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2001.
21 Riferimento a Pedrag Sasha Danilovic un fuoriclasse da lui allenato.
22 M.F.R. Kets De Vries, L’organizzazione irrazionale, RaffaelloCortina Editore, Milano, 2001.
23 Citazione trovata in internet.
24 Citazione tratta da De Rose, L’educazione dell’intelletto, Guida Editori, Napoli, 1986
25 K. Lorenz, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, Adelphi, Milano, 1971
26 U. Galimerti, Tratto da La Repubblica delle donne, Anno 10, n°466, 10 settembre 2005

27 K. Wojtyla, Persona e atto, Bompiani, Milano, 2001
28 Fernando Savater, La ragione appassionata, Sperling Paperback, Milano, 2004.
29 Primo Ministro Planetare del pianeta Dreamroads.


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