bollino ceralaccato

Dialogo tra due psicologi del lavoro

Il piacere del dialogo e della condivísione dei vissuti e delle reciproche esperienze ci ha portato ad un confronto aperto e per noi interessante, che speriamo sia utile socialízzare.

 

vl psicologi40 anni, età critica, soprattutto di questi tempi.  Sarà forse per questo che ho sentito la necessità di una riflessione sulla professione di psicologo del lavoro E ho gradito farlo coinvolgendo l'amico Willìam Levati, con il quale ho condiviso tappe importanti del mio percorso professionale. Il piacere del dialogo e della condivísione dei vissuti e delle reciproche esperienze ci ha portato ad un confronto aperto e per noi interessante, che speriamo sia utile socialízzare.

Stefano Verza Sai William di recente mi sono trovato a ricordare i miei inizi professionali avvenuti nel 1990 grazie a una splendida opportunità professionale che mi capitò nell'ambito dell'analisi del potenziale. Del resto in quel momento storico c'era un forte interesse del mercato.

William Levati In effetti il grande boom di interventi di potenzìale e quindi di Assessment Center nacque prorpio all'inizio degli anni '90.  Ricordiamoci che per tutti gli anni '80, pur esistendo alcuni professionisti che si occupavano di quelle ternatiche, testi e libri italiani non ce n'erano.  Si è trattato però di un boom più della domanda che dell’offerta.  Come ho ricordato fino alla fine degli anni '80 eravamo pochissimi, potrei dire che forse in quegli anni eravamo una decina in tutt'Italia.  Per fare un breve accenno storico, diciamo che dopo aver dimenticato la diagnostica nella psicologia del lavoro negli anni '70, agli inizi degli anni '80 c'era un bisogno da parte delle aziende di mettere in atto tutta una politica, una cultura e delle strumentazioni per conoscere la qualità della risorsa umana che avevano in casa e come e su chi puntare all'intemo dell'organizzazione nel senso più ampio del termine.

SV Eh sì … mentre adesso una certa abitudine mi pare abbia consolidato il potenziale, riducendolo a routine che spesso lascia un po' il tempo che trova; come accade a tutte le routine che diventano automatismi accettati e non più riconsiderati con spirito critico. Non trovi?

WL E' cambiata un po' la domanda: prima le organizzazioni ti chiedevano su che persone potevano contare nel medio-lungo periodo, per poter investire su di loro e farle crescere.  Negli anni '80 e '90 c'era questa esigenza e la psicologia del lavoro si è dedicata a questa tipologia d'intervento.  Forse adesso stiamo passando un altro periodo storico, forse adesso, c'è ancora l'esigenza della valutazione ma la vedo meno agganciata alla pianificazione delle carriere e più agganciata allo "sviluppo nel ruolo" delle persone.  Le aziende in questi ultimi anni, intendo gli ultimi 4/5 anni, sono meno interessate a un discorso di pianificazione delle risorse umane; in generale sono meno interessate al concetto stesso di pianificazione, poiché devono costantemente produrre risultati nel breve periodo ( l'arco temporale è di tre mesi), quindi il concetto di medio-lungo periodo che sta dietro al concetto di pianificazione e di investìmento, viene ad essere meno praticato.  Tutto ciò ha portato le aziende ad investire meno nell'innovazione e ancor meno nella risorsa umana.  In questo senso le aziende ti chiedono di capire "chi abbiamo in casa" e sono interessate a rendere le persone adeguate al ruolo che in quel momento devono svolgere, affinchè diano prestazioni più efficaci possibili, rispetto alle aspettative aziendali.

SV
Mi sembra però una situazione paradossale.  Voglio dire, mi sembrerebbe più opportuno non soddisfare tutte le richieste hic et nunc che provengono dalle aziende, ma far comprendere che forse è necessario riappropiarsi di una visione di maggior respiro, se non proprio di lungo termine.  Certamente può essere più dispendioso farne comprendere le ragioni, ma credo si debba perlomeno tentare.  Consideriamo che oggi la necessità di risposte immediate, di certezze è un fenomeno sociale di vasta portata, soprattutto perché siamo pervasi dalla sensazione di vivere in un'epoca di totale incertezza, che poi sia reale o meno poco conta.  Fatto sta che, comunque sia, viene meno il senso del futuro.  E allora, stringendo il campo al mondo organizzativo, è naturale evitare di porsi, magari anche inconsciamente, il problema di sapere chi ho in casa e su quali carartteristiche distintive posso far conto; ma io trovo che questo sia un aspetto forse ancor più basilare di prima se si vuole essere sempre più rispondenti e in anticipo sul mercato.  Pensa a quando andrà in pensione in un sol colpo la generazione nata nel dopoguerra … è la generazione che attualmente detiene la maggiore esperienza e le principali competenze, per cui il pericolo serio è quello di perdere ulterioriormente competività.  Del resto se non sono in grado di individuare le capacità in uscita e non conosco le potenzialità a disposizione come posso pianificare la necessità di competenze che avrò nel prossimo futuro?  Senza considerare che oltretutto in questo modo azzero la memoria storica dell'organizzazione.

WL E' verissimo. Ma a questo punto si apre un'altra questione che è quella della presenza della cultura della psicologia del lavoro in Italia.  Non c'è dubbio che ci sia un deficit di questa presenza. Io ho sempre pensato che se la psicologia del lavoro non occupa un posto significativo nella cultura organizzativa italiana, in modo serio e completo, le organizzazioni ci rimettono ed anche la società nel suo complesso.  Ci sono dei problemi nuovi che le aziende ci pongono e noi come professionisti dovremmo ricercare risposte scientifiche e serie da dare alle aziende, poichè al momento non le possediamo completamente. Allora si innesta il solito meccanismo che si è già visto.  Quando le aziende non trovano risposte serie e professionali risolvono i loro innegabili bisogni con progetti palliativi, con autentiche fughe dalla realtà che portano, specialmente le grandi aziende, a commissionare interventi non sempre supportati dalla necessaria scientificità e professionalità.

SV E beh, in effetti occorre un salto culturale e forse la psicologia del lavoro dovrebbe porsi proprio come promotrice di una certa cultura, che non necessarimente devi sposare ed applicare in toto.  Dico questo perché mi ricordo che all'inizio della mia esperienza quando lavoravamo assieme uno degli aspetti a cui davo forte valenza della nostra professione era quello diciamo così di consentire alle organizzazioni una "scelta consapevole". Ed è ancora così ovviamente. Scelta consapevole che vuol dire sostanzialmente aiutare le aziende a scegliere con cognizione di causa, metterle nella possibilità di operare scelte consapevoli sulle risorse umane, per consentire alle persone di poter eprimere pienamente la loro soggettività, la loro unicità distintiva.

WL Qui, in fondo, entra in gioco un'altra questione: chi è un direttore Risorse Umane e quale ruolo deve avere la Direzione Risorse Umane.  Quali devono essere le sue competenze.  Anche qui bisognerebbe fare una riflessione seria , che nasca da una indagine all'intemo delle stesse direzioni.  Sarei curioso di capire quali sono i criteri che motivano un direttore Risorse Umane ad accettare o rifiutare una proposta d'intervento , cioè qual è la sua possibilità di valutazione di un'offerta di questo tipo.  Non lo so mi chiedo dove si aggancia in termini culturali, in temini scientifici e in termini strumentali a dire si o no.  Dove appoggia la sua riflessione per poter dire propongo questo intervento poiché mi darà questo risultato e sono pronto a sostenerlo nei confronti dei mio vertice.  Dico sempre che gli strumenti di un intervento sono “stupidi” e li rende intelligenti chi li utilizza e lo scopo per cui vengono utilizzati.  Lo strumento è un fatto tecnico, ma è la loro utilizzazione professionale, il loro scopo, il loro significato che dà un senso alla loro utilizzazione. Ecco per esempio … il significato, beh io mi chiedo a volte, da psicologo dell'organizzione, se un direttore delle Risorse Umane quando propone un intervento, un corso di fonnazione, si chiede che signiftcato, al di là dell'intervento in sé, avrà culturalmente per l'azienda.

SV Hai proprio toccato il punto, il mio accenno alla scelta consapevole deriva proprio dalla constatazione che spesso nelle aziende la riflessione non è un valore riconosciuto, si premia di più la filosofia dell'agire immediato. Però è un valore aggiunto notevole poter ragionare con i referenti aziendali sulla diversità che caratterizza ogni approccio, ogni progetto, ogni iniziativa: in sostanza rendere ben esplicito che se faccio una cosa ottengo un certo tipo di risultato e se ne faccio un’altra il risultato sarà necessariamente un altro; che non è la logica del meglio e del peggio, è ben altra cosa: è poter riflettere con più cognizione di causa per considerare se soddisfare l’urgenza sia sempre più proficuo del guardare più in là. O comunque prendere almeno in considerazione più alternative e decidere per l’urgenza solo quando non ho altra scelta.

WL In questo senso bisogna ritornare sul ruolo della direzione risorse umane: è un ruolo che si interessa della quantità o della qualità, ma soprattutto è un ruolo di tipo strategico o tattico, cìoè interviene a sanare le situazioni de emergenza o interviene ad elaborare le strategie e a rapportare i comportamenti delle persone alle strategie che ha collaborato ad elaborare Si parla tanto del fattore umano all'interno delle organizzazioni come quello più importante e competitivo e poi vedo che il ruolo delle risorse umane non è cosi importante e strategico.  Allora non lo è perché?  Perché in fondo non si crede alla frase che il fattore umano è il fattore competitivo più importante oppure non si ha una professionalità così consolidata nelle direzioni delle risorse umane perché si incida strategicamente sull'organizzazione?  Questo è un problema. L'altro a cui le organizzazioni, ma direi che il sistema paese, cerca di darsi una risposta è la costruzione di classi dírigentii.  Questo è un problema complesso, che risulta raramente nelle agende delle organizzazioni e del sistema paese.  Tutti denunciano un deficit di classi dirigenti, ma poi che ipotesi si fanno di come deve essere una classe dirigente, come costruirla, come porla in condizione di esprimersi, quando ancora oggi si fa carriera in azienda attraverso le cordate o, peggio, per caso, come spesso denunciano le indagini che sono state fatte.

SV A questo punto mi sembra proprio che l'aspetto culturale sia un tema assolutamente centrale.  Solo per fare un esempio: sto collaborando da qualche anno al progetto "Dialogo nel buio”, e lì ho avuto conferma di quanto noi non siamo consapevoli della preminenza visiva della nostra cultura.  Potrà sembrare una banalità, ma una cultura di questo tipo ci porta a credere solo in ciò che vediamo.  E così noi vediamo i numeri, le statistiche, i report, tutti elementi incontrovertibili che ci parlano.  L'intangibile non lo vedo, quindi credo di non avere elementi e mi sembra del tutto secondario.  C'è una frase che mi ha detto un non vedente, e che a mio avviso, esplicita splendidamente questo concetto.  Rende molto meglio in inglese: "darkness cannot be seen, just exist" potremmo dire "il buio non può essere visto, semplicemente esiste".

WL E' vero quello che descrive questo frase; si parla tanto di dare un peso economico agli intangibili, ma ancora ancorandoci ad un concetto di quantità, che spesso può, non solo nascondere la realtà, ma addirittura essere fuorviante.  In altri termini io mi chiedo, specialmente nelle nuove realtà economiche, quando compri un'azienda quello che in realtà compri sono principalmente le competenze che possiedono le persone.  Allora si ha necessità di saperi diversi, tra cui la psicologia del lavoro, per poter capire e dare un valore a questa realtà economica.

SV Stavo pensando comunque che le organizzazioni riflettono la società e mi chiedo se quanto stiamo dicendo non apra un discorso più complesso sugli atteggiamenti e sulle motivazioni individuali verso la professione. Io ho la netta sensazione, che mi deriva da qualche riscontro oggettivo, che oggi manchi consapevolezza e conoscenza di come le persone si approcciano al lavoro in generale o al loro ruolo in azienda.  Considerando che le motivazioni evolvono in funzione delle differenti generazioni oltre che dei differenti stadi di vita che passa una persona.

WL Lo penso anch'io, anzi penso che ci siano due tematiche sulle quali noi dobbiatno cominciare a riflettere e di cui personalmente in questo momento non ho la risposta.  La prima è il concetto stesso di lavoro: siamo sicuri che la parola lavoro ha lo stesso significato che aveva per me, sto parlando della mia generazione, quando avevo venticinque anni e mi sono affacciato al mondo dei lavoro?  Penso che sia molto cambiato, vedo i giovani che quando parlano di lavoro hanno qualcosa in mente che non è più quello che avevo io. L'altra tematica porta il discorso su il ridefinire il concetto di motivazione.  Tu parli della nostra motivazione come professionisti, io allargo il discorso e dico ma qual è la motivazione in generale al lavoro. Non sto parlando della mia generazione e forse neanche della tua, sto parlando dei giovani che escono adesso dall'università, che si laureano in questi giorni.  La psicologia del lavoro nasce dalla cultura e dalla storia che concretamente vive e le risposte che ci sono sui libri cominciano ad essere non sbagliate, ma certamente obsolete. Che è diverso. Occorre capire che tipo di risposta dare al tema del significato del lavoro e della motivazione.

SV Concordo pienamente, ci sono dei cambiamenti in atto che dobbiamo studiare e capire Tu sai, ne abbiamo parlato spesso, già negli anni '90 nel corso della mia esperienza in azienda quanto insistessi sulla necessità che ci si cominciasse a muovere, pur all'inetrno di paletti fissi, verso una sempre maggiore individualizzazione degli aspetti motivazionali.  Non mi sembra che ci sia posti sino in fondo il problema di come rispondere a motivazioni estremamente differenziate.  Non posso rispondere sostanzialmente solo con gratifiche economiche.

WL Hai ragione, bisognerebbe incominciare a leggere la motivazione individuale rispetto allo “style life”, lo stile dì vita di ognuno, poiché ognuno porta le sue istanze, la sua personalità, il suo mondo e qundi la motivazione non è più genericamente riscontrabile a grandi linee. Forse una delle prime cose da dire è che la motivazione è sempre meno collettiva. Non possiamo più dar per scontato che un'unica offerta possa accontentare un gran numero di persone. Bisognerebbe capire come differenziare questa offerta.

SV Per capire occorre fare ricerca. Noi non ricerchiamo, non studiamo, all’estero si fa più ricerca......

WL … e sì, sì fa meno ricera in Italia.  Una ricerca che poi deve essere socializzata, questo è fuori di dubbio. Si può fare anche ricerca e innovazione nella psicologia del lavoro.  Le aziende dovrebbero investire anche in questo ambito per capire se stesse.

SV
E loro stesse nella relazione con le persone che le compongono.  Ormai occorre ridefínire il rapporto dialettico persona-organizzazione in tutte le sue sfaccettature in tutte le sue nuove forme. Guarda nel 2005 ho partecipato ad una ricerca sul campo che aveva per oggetto la transizione al pensionamento, da cui tra le altre cose è emersa la mancanza di uno scambio intergenerazionale serio che potrebbe fornire qualche spunto interessante, se non già qualche risposta.  Essere utile alla mia azienda a 50/60 anni può anche voler dire cercare di capire come stanno mutando i tempi, come sta mutando il concetto di lavoro, di motivazione e cosa appassiona un giovane e cosa si aspetta dall'azienda.

WL In effetti abbiamo generazioni all'intemo della aziende che cominciano a faticare a collegarsi l'una con l'altra per permettere la trasmissione di esperienze necessarie, poiché in molte organizzazioni ci sono state delle latenze di assunzione per certi periodi. Per cui adesso trovi nello stesso ruolo persone di 50anni e persone di 30, in questo modo è chiaro che si creano degli squilibri.  Prima nelle organizzazioni c'era un passaggio esperienziale da una generazione all'altra in cui si facevano crescere le persone proprio in termini di esperienze, di vissuti, di problematiche, di cose già viste

SV Tocchi un tema a me particolarmente caro: questi scambi sono fondamentali.  Se penso al mio approccio alla professione, beh devo dire che sì, si è evoluto grazie ad esperienze di vita che mi hanno maturato, ma in gran parte grazie anche a intensi momenti di confronto e di scambio con altre generazioni.

WL
Per tutte lo professioni, per tutti i ruoli vale il principio che è importante aver vissuto sulla propria pelle certe esperienze.  Come avviene questo importante momento professionale per un giovane che approccio una professione o entra in un'azienda?  Questo è un poblema che sta diventando delicato.  E’ necessario che un giovane sia accompagnato all'intemo dell'organizzazíone, sopportato e messo in grado di fare quelle esperienze che gli permettano di crescere.  Pensare che si sono risolti i problemi assumendo i “110 e lode” è una risposta banale e superficiale.  Ovviamente tutto ciò ha un senso se ci interessa far crescere un giovane. Se prevarrà la logica del breve periodo e del non investimento, mi domando quando l'azienda avrà bisogno di un manager consolidato dove andrà a cercarlo?  All'estero? ...
E poì vi è anche il problema che i giovani entrano tardi nel mondo del lavoro, spesso a 30 anni.  Quindi ancora a 30 anni si è considerati giovani e talvolta poi a 40 si è considerati in certi ambiti non più risorse su cui contare. Sono tutti aspetti a cui un'azienda dovrebbe essere sensibile a investire in termini di ricerca.  Invece si va avanti un po' a tentoni.  Come diceva Bateson "Quando non si sa cosa fare tutte le strade sono buone".

SV Non credi che tutte le strade siano buone quando non si ha chiara una cultura della ricerca?

WL Sì, come ho già detto, bisognerebbe fare ricerca per trovare le risposte alle nuove tematiche che la realtà ci sta portando.  Poi bisognerebbe trovare dei canali istituzionali da utilizzare come contenitori per comunicare e socializzare i risultati e infine bisognerebbe anche enfatizzare "la cultura della domanda" partendo dal presupposto che è più difficile trovare una domanda corretta che non la conseguente risposta.

SV Ah, la cultura della domanda … che bella cultura … in un'epoca nella quale sarebbe bene dubitar di troppo certezze, di troppe ricette; nella quale sempre meno si spinge a riflettere, a dubitare, a mettere in correlazione elementi disgiunti. Certo non è popolare dire riflettiamo, sforziamoci di trovare insieme una soluzione, io ti accompagno in questo percorso ma non ho da fornirti all'istante una comoda soluzione, anche perché magari non la posseggo ancora.. Certo necessita di intraprendenza; ma, come ci illumina Wolfgang Sofsky, se nessuno mostra intraprendenza, prima o poi cesserà di essere una merce richiesta.

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