bollino ceralaccato

La frustrazione come leva di cambiamento

“Nel processo di crescita ci sono due possibilità di scelta. O il bambino cresce imparando a superare le frustrazioni, o viene viziato. Può essere viziato dai genitori che rispondono a tutte le domande, in modo giusto o sbagliato. Può essere viziato dal fatto di ottenere immediatamente tutto quello che vuole… Probabilmente sarete rimasti sconcertati, sentendomi usare la parola frustrazione in un senso tanto positivo. Ma senza frustrazione non c’è nessun bisogno, nessuna ragione di mobilitare le proprie risorse, di scoprire che potresti essere capace di fare qualcosa da solo…” (p. 40)

 

frustramento.jpegFritz Pearls, il grande psicoterapeuta gestaltico, sostiene che ognuno può cambiare solo con le sue forze, che non possiamo dire a qualcuno di cambiare perché non lo farà, che non possiamo imporci di cambiare, perché non ci riusciremo. Il cambiamento avviene da solo, come processo derivante da qualcosa che cambia a monte o intorno, non come un programma da attuare passo per passo. Il terapeuta, o più ampiamente il coach, il consulente, non possono fornire aiuto al cliente, non possono farlo cambiare. Possono solo creare condizioni tali che il cliente in qualche modo cambi. Pearls dice che possono solo frustrarlo, e lui stesso si definisce un frustratore di prima grandezza.

Ecco le sue parole, tratte da “La terapia gestaltica”, Astrolabio, 1980.
Nel processo di crescita ci sono due possibilità di scelta. O il bambino cresce imparando a superare le frustrazioni, o viene viziato. Può essere viziato dai genitori che rispondono a tutte le domande, in modo giusto o sbagliato. Può essere viziato dal fatto di ottenere immediatamente tutto quello che vuole… Probabilmente sarete rimasti sconcertati, sentendomi usare la parola frustrazione in un senso tanto positivo. Ma senza frustrazione non c’è nessun bisogno, nessuna ragione di mobilitare le proprie risorse, di scoprire che potresti essere capace di fare qualcosa da solo…” (p. 40)

Supponiamo che io voglia dimagrire. Se vado da un dietologo e gli chiedo di aiutarmi, costui mi darà una dieta che io comincerò a seguire per un po’. Cambia subito qualcosa, e io mi sento molto soddisfatto: funziona! I vestiti mi vanno un po’ più larghi, mi sento più leggero. Vado avanti, ma poi la sorpresa finisce e resta la difficoltà di seguire il regime alimentare, di rinunciare a questo e a quello, fino a che succede qualcosa, una festa, una contrarietà nel lavoro, e allora mi devo gratificare o consolare, e mi faccio una bella mangiata. Non succede nulla, per cui mi trovo con gli amici e mi lascio andare ancora una volta. Ho qualche senso di colpa che accentua la mia voglia di gratificarmi con un cibo proibito o un bicchiere di vino. Ecco che dopo un po’ il mio organismo (un sistema complesso che tende all’omeostasi) in modo subdolo ma ostinato mi riporta al peso che avevo prima della dieta, anzi aggiunge qualcosa in più.

Il cambiamento è avvenuto, però in modo superficiale, e tale da non risolvere il problema, ma da aggravarlo.
Se trasferiamo questa esperienza a relazioni familiari, sentimentali, di amicizia o professionali, le dinamiche non cambiano. Anche nelle organizzazioni accadono processi simili.

Spesso sono chiamato a fare qualche seminario o consulenza su problemi di relazione fra reparti di un’azienda, o di motivazione, o di resistenza alle innovazioni. Nella stragrande maggioranza dei casi c’è una richiesta di cambiamento, di soluzione del problema, da ottenere col minimo sforzo, il minimo tempo, la minima spesa. Io vado, e immediatamente mi rendo conto che il problema è molto più complesso, che sarebbe necessaria la partecipazione del top management, che un intervento isolato non risolve nulla. Spesso il cliente si rende conto della situazione, ma si stringe nelle spalle e dice che più di così non si può fare. L’unica cosa che mi resta quindi è dare qualcosa al cliente, pur sapendo che il vero cambiamento non avverrà.

Spesso il cambiamento è richiesto dal cliente, ma non voluto, perché il cambiamento è sistemico, e anche un piccolo cambiamento rischia di cambiare tutto il sistema, fino a far traballare i posti di comando, quindi in buona sostanza è meglio evitare e lasciare che tutto proceda in modo omeostatico. Questa è una sfida molto insidiosa per il consulente, che deve rispondere alla richiesta impossibile: “vieni qui, dimmi che cosa devo fare, in modo che io, non facendolo, possa dimostrarti che la tua ricetta è sbagliata”. E’ la richiesta di aiuto del bambino, che non vuole essere aiutato a crescere, ma vuole restare bambino.

Edgar Schein nelle sue lezioni sulla consulenza di processo si era accorto dell’insidia, e distingueva i tre tipi di consulenza: vendere e dire, medico/paziente, consulenza di processo. Nel primo tipo un esperto vende una soluzione prefabbricata, che spesso viene rifiutata come non adatta al caso speficico. Nel secondo tipo il cliente si sente sminuito di fronte al consulente che fa la diagnosi e prescrive la cura, quinti non si cura, non guarisce per poter dire che il medico non era all’altezza della situazione. Il consulente di processo invece osserva il processo con cui si genera il problema, ma lascia il problema al cliente che deve risolverselo da solo; il consulente si limita a orientare il processo già in atto verso la soluzione.

Paradossalmente, la relazione di aiuto fra consulente e cliente si realizza in modo efficace proprio quando il consulente si rifiuta di aiutare il cliente per non trattarlo da bambino, per farlo crescere e fare in modo che si aiuti da solo. Quindi lo condurrà verso uno stato di frustrazione entro cui il cliente troverà le energie per superare l’impasse, acquisire una nuova consapevolezza, creare le condizioni perché il cambiamento avvenga in modo spontaneo.

Già gli antichi sapevano usare la frustrazione, l’impasse, per ottenere prestazioni straordinarie. 
Alessandro Magno per costringere i suoi soldati ad azioni eroiche decise di bruciare le proprie navi, per far sì che il suo esercito conquistasse quelle nemiche se avesse voluto tornare a casa. Mettendo i propri soldati in una situazione senza ritorno condusse alla vittoria il suo esercito, numericamente inferiore a quello persiano.

Sun Tzu dice: “ Al nemico accerchiato, lascia una via di fuga”, perché sa che se il nemico vede la via di fuga, si ritira, altrimenti combatterà fino all’ultimo sangue. E ancora: “Sul terreno della morte, combatti” perché non hai altro da fare. E più avanti: “Se mi trovo su territorio mortale, chiarisco a tutti che non c’è alcuna via di scampo: perché è nella natura dei soldati saper resistere quando sono circondati, combattere fino alla morte quando non c’è alternativa, e obbedire ciecamente quando non c’è speranza.” “Porta i tuoi uomini su posizioni elevate senza via d’uscita, e vedranno la morte: pronti a morire, cosa non riusciranno a fare? È nelle situazioni disperate che ufficiali e soldati dimenticano la paura e danno il meglio di sé. Senza vie di fuga, difendono il terreno coi denti. Impegnati a fondo, si battono a fondo. Senza alternative, lottano fino all’estremo”.

Anche nelle scuole zen il maestro guida il praticante alla ricerca dell’illuminazione con il koan, un aneddoto insolubile che ne frustra la mente raziocinante per muovere risorse vitali da cui si potrà scatenare la comprensione totale e profonda di tutto l’essere, il satori. 
Tornando a noi, come consulenti in che modo possiamo gestire la frustrazione del cliente? Come possiamo fargli capire che se non sa dove sbattere la testa deve andare ancora più a fondo nella sua frustrazione, per trovare le sue soluzioni, per attingere alle sue risorse? Come possiamo guidare il processo senza essere invadenti, ma nemmeno irrilevanti?

Prima di tutto dobbiamo essere molto saldi, e non cedere alla tentazione di correre in soccorso. Dobbiamo ricordarci che se proponiamo una nostra soluzione, è molto probabile che il cliente non la metta in pratica.

In secondo possiamo osservare il cliente, vedere dove va e che cosa fa, farlo muovere senza prenderlo per mano. Solo così il cliente sarà spinto a trovare dentro se stesso e dentro la sua organizzazione le forze che produrranno il cambiamento in modo endogeno, naturale, sistemico. E quindi tollerato e assimilato dall’intero organismo.

Chiudo con una domanda cruciale per il consulente, che lascio senza risposta per lasciarlo frustrato e quindi spingerlo a trovare la sua soluzione: come fa il consulente a “vendere” al cliente la sua capacità di frustrarlo?

Umberto Santucci

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