Il fenomeno della violenza nel calcio si protrae in diverse forme da decenni. Questo rivela che fino ad oggi non lo abbiamo capito e, quindi, non siamo riusciti ad intervenire. Forse abbiamo attuato interventi che hanno peggiorato la situazione. Se così è, allora, credo che per risolvere il problema della violenza occorra una “vista” nuova per trovare nuove soluzioni. Ho provato a guardare altrove e ho scoperto nuove strategie. Naturalmente si tratta solo di un primo sguardo e prime proposte. Ma ritengo possa costituire un buon punto di partenza.
I gruppi di ultras sono sostanzialmente attori sociali. Essi hanno come obiettivo quello dell’autorealizzazione. E costituiscono per i loro aderenti un ambiente dove trovano autorealizzazione. Di fronte a questa realtà come si sta reagendo? Sostanzialmente negandola. Si parte dall’ipotesi che gli ultras siano solo teppisti individuali. Che i gruppi siano solo lo strumento collettivo di facinorosi che devono essere esorcizzati attraverso la retorica della riprovazione sociale e gestiti attraverso la repressione. Io credo che in questo modo si aumenti solo il livello di conflitto. Nessuno nota che il modo in cui si stanno affrontando gli ultras è, ad esempio, simile al modo in cui si trattano tutti i gruppi antagonisti con il risultato di trasformarli in gruppi rivoluzionari?
Come si potrebbe fare alternativamente? Innanzitutto riconoscere che il calcio in sé non c’entra. Il raggrupparsi in gruppi antagonisti è un fenomeno più generale. Chi lo fa nel calcio è perché trova questo terreno più congeniale, magari perché il calcio è materia più semplice della politica. Un fenomeno più generale che non può che essere considerato profetico. Cioè rivelatore della esigenze di cambiare profondamente una società, quella industriale, che è stata grandemente meritoria, ma che ora non è più in grado di costruire sviluppo. Questo riconoscere che il diverso è, appunto, portatore di una diversità che non va negata, ma ascoltata, è il primo passo per iniziare un cammino di crescita dei gruppi di tifosi in modo positivo e non conflittuale.
Il secondo passo è il coinvolgimento progettuale. Il calcio nella sua globalità, le società nelle loro specificità devono coinvolgere questi gruppi e tutti gli altri tifosi nella definizione dei destini del calcio. Questo coinvolgimento funziona tanto più esso è un ologramma di un sforzo più generale, che dovrebbe attivare chi governa, di partecipazione alla riprogettazione della società nel suo complesso. Dai tornelli e dai manganelli al riconoscere ed al coinvolgere progettualmente è la mia proposta. Si tratta di una proposta semplice, ma difficilissima perché chiama in causa le “competenze” di tutta una classe dirigente che si legittima ed è legittimata solo per la competenze e la passione per il pallone. Peccato che, poi, gestire il calcio sia anche altro: definire strategie, impostare politiche finanziarie, costruire e mobilitare organizzazioni, attivare mercati dove vi sono non solo persone, ma anche attori sociali. Ma di acquisire queste competenze in queste aree nessuno sente il bisogno.
Noi, da parte nostra, stiamo preparandoci a dare il nostro contributo. Organizzando seminari di illustrazione delle dinamiche di aggregazione e sviluppo degli attori sociali. E proponendo metodologie per il coinvolgimento progettuale.