Cosa c’entra Piergaetano Marchetti, presidente di RCS con la Cina? Cosa c’entra un uomo così impegnato nella conservazione degli equilibri di potere del nostro sistema economico, con la Cina e il suo sviluppo? La contraddizione sembrerebbe palese non foss’altro perché la conservazione degli equilibri di potere è esattamente il contrario di quello che serve per far sviluppare una economia in una società in veloce cambiamento, sia essa cinese o italiana.
E, invece …
Lo spunto per questo accostamento mi è stato fornito da un articolo comparso sul “Corriere della sera” di sabato 12 maggio dal titolo: “Cina, le multinazionali frenano” a firma di Fabio Cavalera. Cosa frenano? Frenano lo sviluppo dei rapporti di lavoro verso forme meno arcaiche e squilibrate. Per usare un linguaggio che può sembrare obsoleto, ma che “quando ci vuole ci vuole”: frenano l’eliminazione dello sfruttamento. C’è da notare che, come dice l’autore, a questo frenare non partecipano le imprese italiane. Perché frenano? Per il banale motivo che sono sbarcate in Cina a causa del basso costo del lavoro. E se si cominciano a riconoscere diritti ai lavoratori, questo comporta un aumento dei costi che rischia di vanificare gli investimenti fatti in Cina.
Qui dovrebbe entrare in scena la responsabilità sociale che dovrebbe portare queste imprese a favorire una maggior tutela del lavoro. Ma questo non accade perché in questo caso la responsabilità sociale sembra cozzare contro il mito dei nostri tempi: il valore per gli azionisti.
Dovrebbero frenare questo eccessivo egoismo i “controlli”, gli indici di responsabilità sociale e compagnia bella. Ma questo non è possibile perchè questi comportamenti di “irresponsabilità sociale” non sono rilevati e sanzionati da nessun indice. Essi misurano solo il rispetto delle leggi e non i comportamenti che influiscono sui processi legislativi.
Allora per controbilanciare questo crescente estremo egoismo degli azionisti soprattutto delle multinazionali non resta che la vecchia rivoluzione? Chi non ricorda il governo mondiale delle multinazionali contro il popolo che le Brigate Rosse indicavano come la causa di tutti i mali?
Credo che la soluzione sia più semplice: basterebbe una visione meno arcaica del fare impresa.
La vera ragione perchè queste imprese non possono concedere diritti e salari migliori è che esse hanno rinunciato a competere sulla innovazione e hanno adottato solo politiche di riduzione di costo che sono sostanzialmente politiche difensive. Se queste imprese scegliessero la via della innovazione, uno dei loro principali interessi sarebbe quello della valorizzazione e del benessere delle risorse umane che sono i veri protagonisti dell’innovazione. E aumenterebbe anche l’interesse per tutti gli altri stakeholders che sono anch’essi fonte di innovazione e di consenso per realizzare l’innovazione.
Detto diversamente: gli interessi degli azionisti, dei lavoratori e degli attori sociali coincidono sempre quando l’obiettivo non è la conservazione, ma lo sviluppo.
E Marchetti? Entra in scena subito. In una intervista rilasciata a Vittorio Da Rold e pubblicata sul Sole 24 Ore dello stesso giorno, sostiene “nego l’esigenza di far entrare le rappresentanze dei lavoratori nei Consigli di Sorveglianza”. Questa affermazione nasce dalla stessa visione del fare impresa che spinge molte aziende ad opporsi allo sviluppo del sistema dei diritti del lavoro! E’ una concezione che vede l’impresa come una macchina che esiste e produce risorse. Il problema è come distribuire queste risorse. E qui nasce il conflitto tra capitale e lavoro: il capitale cerca di retribuire il meno possibile il lavoro per accaparrarsi la maggior fetta delle risorse prodotte dall’impresa.
In una società in forte cambiamento, però, la sfida fondamentale non è rendere più efficienti le imprese che ci sono, ma modificarle profondamente e generarne sempre di nuove! La sfida non è conservazione, ma lo sviluppo costruito attraverso l’innovazione profonda. E questa sfida può essere vinta solo attraverso una profonda alleanza tra capitale e lavoro. Più in là: attraverso una profonda alleanza tra capitale, lavoro ed attori sociali. Allora che senso ha impedire che nel Consiglio di sorveglianza manchi la voce di coloro che sono la fonte fondamentale dell’innovazione e del consenso per realizzarla?
Tutte queste considerazioni mi portano a concludere che la “Responsabilità sociale” non è più una metafora significativa. Ad essa propongo di sostituirne un’altra: costruire sviluppo attraverso il sociale. Si tratta di una metafora che porta ad una visione inedita nei rapporti tra fare impresa e società e che diventa particolarmente rilevante quando si parla del sistema bancario. Ma di questo parleremo domani.