bollino ceralaccato

La prospettiva della complessità nello studio dei sistemi urbani e regionali, e nell’economia in generale

A cosa serve l'approccio della complessità...? Bertuglia e Vaio danno da sempre svariate risposte pratiche ed efficaci a numerosi ambiti anche delle Scienze Sociali, dell'Economia, dell'Urbanistica. Un articolo su come, in pratica, la Complessità ci aiuti a decidere e a vivere meglio.

di:
Cristoforo Sergio Bertuglia
(*)
Franco Vaio
(**)

 

(*) È stato professore ordinario di Pianificazione del territorio, presso il Politecnico di Torino; cristoforo_sergio_bertuglia@yahoo.it

(**) È stato professore a contratto di Modelli matematici per le applicazioni, presso il Politecnico di Torino; francovaio@yahoo.it

Articolo già pubblicato su Economia Italiana 2009-2, pp. 307-363

Indice dei contenuti

Introduzione

Parte I: Lo studio dei sistemi urbani e regionali nella prospettiva della complessità

1.1 Organizzazione spontanea nei sistemi sociali

1.2 Processi evolutivi bottom up nei sistemi urbani e regionali

Parte II: I fondamenti della prospettiva della complessità in economia

2.1 I sistemi complessi

2.2 Gli agenti di un sistema complesso

2.3 Le proprietà emergenti

2.4 La modellizzazione della complessità

2.5 L’economia complessa

 

Introduzione

A partire grosso modo dagli anni Settanta del Novecento, un interesse crescente si è rivolto verso ambiti di ricerca nuovi che condividono il fatto che i loro oggetti di studio sono sistemi che non si prestano all’approccio riduzionista, il quale consiste nello spezzettamento dei fenomeni in parti, nella descrizione delle parti isolate e nel successivo assemblaggio delle singole descrizioni in una descrizione unica. Nei sistemi del nuovo tipo, i collegamenti di ciascuna parte con le altre (tutte o alcune) sono troppo complicati per poter essere descritti con equazioni di facile definizione e di facile risoluzione, se non addirittura troppo complicati o troppo nascosti per poter essere identificati e isolati. I sistemi di questo nuovo tipo, i sistemi complessi, sono l’oggetto di studio della complessità. La complessità dei sistemi come proprietà in sé è diventata un oggetto di studio comune alle discipline nelle quali si riconosce, alla base della fenomenologia, la presenza di sistemi complessi, nei quali le parti non possono essere isolate dal sistema cui appartengono senza che sia il loro funzionamento individuale sia quello complessivo del sistema ne vengano stravolti o addirittura cessino del tutto.

Un tipico ambito in cui l’approccio fondato sulla complessità sta riscuotendo grande interesse è costituito dalle scienze sociali e, fra queste, in particolare l’economia (la lista dei riferimenti sul tema generale della complessità in economia è a dir poco sterminata; ne citiamo solo alcuni, presi fra i più significativi: Anderson P.W., Arrow e Pines, eds., 1988; Arthur, Durlauf e Lane, eds., 1997; Barkley Rosser e Cramer, eds., 2004; Blume e Durlauf, eds., 2006; Lane, Pumain, van der Leeuw e West, eds., 2009).

Nel presente lavoro intendiamo presentare gli elementi che maggiormente caratterizzano l’approccio della complessità nello studio della dinamica dei sistemi urbani e regionali e, più in generale, dei sistemi economici. Il lavoro è strutturato come segue. Nella Parte I, discuteremo alcune applicazioni della complessità ai sistemi urbani e regionali, le quali permetteranno al lettore che abbia interessi operativi di trovarsi subito sul terreno che gli è più congeniale; nel fare ciò, ci affideremo all’intuizione per la comprensione dei meccanismi della complessità a livello teorico. Nella Parte II, presenteremo gli elementi dell’apparato teorico appropriato, utili per una migliore comprensione dei fondamenti della complessità in economia.

 

Parte I: Lo studio dei sistemi urbani e regionali nella prospettiva della complessità

1.1 Organizzazione spontanea nei sistemi sociali

La natura intrinsecamente spaziale delle scienze regionali1 rende questo settore di studi un tipico ambito di applicazione di un nuovo approccio sviluppatosi trasversalmente a numerose aree disciplinari negli ultimi quarant’anni circa: l’approccio della complessità. In questo approccio, come si dirà meglio nella Parte II discutendolo più a fondo, i fenomeni di organizzazione che si manifestano su un territorio sono interpretabili come fenomeni emergenti, cioè come fenomeni di organizzazione spontanea (o autoorganizzazione) originati dal basso, senza alcuna programmazione esterna o in generale preventiva, esclusivamente a seguito delle interazioni fra individui in quanto insediati sul territorio (su questo punto torneremo più a fondo nei Capitoli 2.2 e 2.3); individui visti, a loro volta, come entità che scelgono e agiscono autonomamente, visti cioè come agenti eterogenei, come diremo meglio nel Capitolo 2.2 (si vedano ad esempio: Krugman, 1996; Reggiani, ed., 2000; Fujita, Krugman e Venables, 2001).

Uno fra i primi modelli elaborati lungo questa linea, che appare particolarmente originale sotto il punto di vista della complessità, fu elaborato da Thomas Schelling, insignito del premio Nobel per l’economia nel 2005 per i suoi studi sulla teoria dei giochi, e fu discusso in alcuni lavori che rimangono una pietra miliare nello studio della modellizzazione dei fenomeni emergenti derivati da interazioni locali di carattere sociale (Schelling, 1969, 1971, 1978). L’interesse per il cosiddetto modello di segregazione di Schelling è tuttora vivo: tale modello della dinamica sociale è ancora oggetto di ricerche e studi (fra i tanti studi recenti a riguardo si vedano ad esempio: Bruch e Mare, 2006; Vinkovic e Kirman, 2006; Fagiolo, Valente e Vriend, 2007; Pancs e Vriend, 2007; Crooks, 2008; Benenson, Hatna e Or, 2009).

Schelling rilevò una forma di struttura emergente presente nelle città americane: la dinamica della popolazione portava alla comparsa di una segregazione razziale che confinava persone di colore in aree-ghetto; la segregazione si formava anche quando i singoli individui residenti nell’area urbana considerata non erano di convinzioni personali radicalmente razziste. Schelling osservava, in particolare, che «la mappa demografica di quasi tutte le aree metropolitane americane suggerisce che frequentemente si trovano aree abitate solo da bianchi o quasi, e aree abitate solo da neri o quasi, ma che è difficile trovare aree miste in cui né i soli bianchi né i soli neri superano i tre quarti circa del totale della popolazione» (Schelling, 1969, p. 488, nostra traduzione).

Schelling costruì un modello molto ingegnoso nella concezione, pur essendo tecnicamente piuttosto semplice, con il quale pervenne a conclusioni originali e di cruciale importanza. La prima conclusione, apparentemente banale, era che la segregazione nasce quando ciascun individuo preferisce non avere troppi vicini di casa diversi da sé. La seconda conclusione era che anche deboli preferenze individuali riguardo al colore dei propri vicini possono condurre, per quanto siano deboli, a un elevato grado di segregazione; cioè che strutture urbane integrate, nelle quali le distribuzioni dei colori degli individui siano uniformi, costituiscono in realtà uno stato di equilibrio instabile di fronte a perturbazioni casuali delle distribuzioni territoriali del colore degli individui. La terza conclusione era che quartieri segregati di grande estensione emergono anche quando le preferenze degli individui hanno un carattere strettamente locale, nel senso che gli individui si interessano soltanto ai propri vicini immediati. Quanto da ultimo evidenzia un tema tipico della complessità: interazioni locali, di breve raggio d’azione, possono creare strutture di ampia scala.

Schelling dimostrò, in sostanza, l’autoorganizzazione endogena del sistema sociale, cioè la correttezza dell’idea secondo la quale l’intera­zione fra le scelte individuali porta a risultati organizzati di carattere collettivo che non sono in stretta relazione con le intenzioni individuali. Infatti, nel modello nessun individuo pensa dirigisticamente a instaurare una segregazione organizzata, e in relazione a ciò il sistema urbano inizialmente è disorganizzato. Schelling mostrò, quindi, che l’intera­zione fra le scelte degli individui è all’origine della formazione di veri e propri ghetti nelle città, anche se le opinioni dei singoli individui non sono, di per sé, radicalmente razziste. La formazione dei ghetti è, in altre parole, un caso di fenomeno emergente in un sistema complesso, che si manifesta come un processo di autoorganizzazione delle scelte localizzative degli individui, e che si genera anche se le convinzioni individuali in ordine alla scelta della localizzazione della propria abitazione in prossimità di persone che hanno lo stesso colore sono solo di debole preferenza.

Il modello di Schelling non era un modello dinamico scritto sotto forma di un sistema di equazioni differenziali o di equazioni alle differenze finite come, all’epoca, la grande maggioranza dei modelli matematici della fisica e dell’economia. Sostanzialmente, si trattava di un automa cellulare bidimensionale, in cui la superficie del territorio considerato era divisa in celle quadrate, più o meno come in una grande scacchiera. Al massimo un solo individuo (o un nucleo familiare identificato con l’individuo di riferimento) risiedeva in una cella, ciascuna cella poteva essere vacante oppure in uno stato che era identificato dal colore dell’individuo che vi risiedeva. Ogni cella della scacchiera che non confinava con il bordo del territorio considerato toccava, con un lato o con un vertice, otto celle: ciascun individuo (o nucleo familiare) poteva così avere da zero (celle confinanti tutte disabitate) a otto (celle confinanti tutte abitate) vicini immediati. Un individuo era contento o scontento della propria localizzazione secondo il numero dei vicini immediati, vale a dire gli abitanti delle sole otto celle direttamente confinanti (corto raggio d’azione dell’interazione), del suo stesso colore rispetto al numero totale dei vicini immediati. Se accadeva che, durante l’evoluzione del sistema, il residente in una cella, a un dato tempo, non era soddisfatto dei propri vicini perché troppi di loro erano di colore diverso dal suo, allora egli, nel tempo successivo, si trasferiva in una nuova localizzazione, trovata nella cella vacante più vicina. Le preferenze degli individui non esprimevano tanto il piacere di avere vicini dello stesso colore, quanto invece la volontà di non rimanere isolati fra individui di un altro colore (se si vuole, la paura di rimanere isolati).

Si possono immaginare regole differenti per stabilire quando, per un individuo, scatta la scelta di trasferirsi in un’altra cella (cioè la rilocalizzazione). Schelling adottò la regola seguente. Un individuo con un solo vicino si trasferisce se quest’ultimo è di colore diverso dal suo; un individuo che ha due vicini si accontenta di uno del proprio colore per non trasferirsi; un individuo che ha da tre a cinque vicini si accontenta di due del proprio colore, altrimenti si trasferisce; un individuo che ha da sei a otto vicini si accontenta di tre del proprio colore. Ciascun individuo insomma richiede che almeno il 37% dei propri vicini sia come lui. Ogni individuo che sceglie una nuova localizzazione influenza sia l’habitat che abbandona sia quello in cui si inserisce, e provoca così, a sua volta, una serie di variazioni nelle preferenze sia dei vecchi sia dei nuovi vicini. In questo modo si innesca una reazione a catena di rilocalizzazioni, che può portare a risultati sorprendenti.

Data una configurazione iniziale del modello nella quale i due colori sono distribuiti sul territorio considerato in modo casuale, assegnando il colore a ciascuna cella con la stessa probabilità per un colore o per l’altro, si osserva che già dopo poche iterazioni emerge un evidente schema di segregazione: le celle di un colore si aggregano in vasti gruppi omogenei, così come le celle dell’altro colore (Figura 1). Il sistema, prevede il modello, evolve verso la formazione di raggruppamenti macroscopici di celle di un colore e di celle dell’altro colore (con la formazione di ghetti), compiendo, come è chiamata in fisica, una vera e propria transizione di fase, che si manifesta come un fenomeno emergente.

 

Figura 1. Il modello di Schelling: iniziando da una distribuzione casuale di celle, a seguito della presenza di disomogeneità locali il sistema evolve verso la segregazione (fonte: Batty, 2008)

Il sistema si comporta dunque come se, partendo da uno stato disordinato, nel quale le popolazioni dei due colori sono disperse sul territorio e mescolate fra loro, grosso modo con omogeneità, e operando una transizione di fase, si portasse verso una cristallizzazione in uno stato ordinato di equilibrio stabile. Lo stato iniziale in cui i colori delle celle sono assegnati casualmente come detto (Figura 1 a sinistra), non è uno stato di equilibrio. Lasciato evolvere, il sistema in disequilibrio si porta spontaneamente verso una configurazione di stabilità: quella data dalla segregazione. Transizioni di fase di questo genere, frequenti nei sistemi studiati dalla fisica, sono caratteristiche tipiche dei sistemi complessi adattivi.

Se si assegna lo stato iniziale del sistema attribuendo i colori alle celle come quelli di una scacchiera, con le celle di un colore alternate a quelle dell’altro colore, sia nelle righe sia nelle colonne, allora, in questo caso, si ha uno stato di equilibrio. Si tratta di un equilibrio instabile, il quale, in sé, non è capace di dare origine ad alcuna evoluzione: tutti gli individui restano dove si trovano. È interessante, ora, osservare che se nella scacchiera delle celle così definita si introducono poche perturbazioni localizzate, cambiando il colore solo di un piccolo numero di celle disperse qua e là, ciò agisce come una sorta di «spinta gentile» («nudge», come la chiamano Thaler e Sunstein, 2008), un pungolo che smuove il sistema dall’equilibrio instabile, ma non lo indirizza verso un’evoluzione predefinita. Il sistema non è più in equilibrio, e il modello mostra che il disequilibrio introdotto è tale da scatenare la dinamica delle rilocalizzazioni che porta alla segregazione (Figura 2).

 

Figura 2. Il modello di Schelling: iniziando da una distribuzione uniforme di celle, in cui vengono introdotte poche sporadiche perturbazioni localizzate, il sistema evolve verso una completa segregazione (fonte: Batty, 2008)

Il modello di Schelling mostra molte caratteristiche dei sistemi complessi, ed è proprio in questo il suo interesse. Prima fra tutte, vi è proprio l’idea che esistono equilibri fragili, stati di equilibrio instabile nei quali il sistema può venirsi a trovare. Se questi equilibri sono perturbati, il sistema si sposta rapidamente e spontaneamente, cioè senza interventi esterni, verso un altro equilibrio.

Tutto ciò, trasferito al mondo reale, si traduce nella comparsa della segregazione nelle aree urbane: il fatto che individui dello stesso colore formino dei raggruppamenti omogenei emerge anche se gli individui, presi singolarmente, non rifiutano per principio di vivere in un ambiente integrato. Anche quando gli individui sono tolleranti e quindi accettano di vivere in una struttura integrata, questa è instabile e, malgrado la tolleranza generale, gli individui, liberi di decidere autonomamente, finiscono comunque per dare origine a una segregazione spaziale quasi completa; e anche se a loro interessano solo i vicini più prossimi, l’intera area si struttura in poche ampie parti separate, stabili, in cui i colori sono distinti.

Esempi di schemi persistenti di interazione del tipo delle strutture che si formano nel modello di Schelling non sono rari nei sistemi sociali. Anche i distretti industriali e i sistemi urbani, ad esempio, sono sottoinsiemi di sistemi socioeconomici nei quali le interazioni fra gli individui, visti come agenti autonomi (si veda la Parte II), sono così strette da formare delle sorte di isole nel sistema, le quali, a loro volta, possono comportarsi esse stesse come individui-agenti, di fronte a perturbazioni provenienti da altre aree del sistema cui appartengono.

È evidente che non si può assumere che l’autoorganizzazione, in quanto tale, di un sistema porti necessariamente a un risultato che, valutato nel contesto specifico delle scienze sociali, appaia necessariamente auspicabile. Talora, come nel caso del modello di segregazione di Schelling, il risultato dell’autoorganizzazione può essere considerato negativo sul piano dei benefici sociali che esso comporta. Lasciando da parte i sistemi delle scienze della natura, dove valutazioni di questo genere non sono pertinenti, è un pregiudizio pensare che l’ordine spontaneo e autoorganizzativo sia necessariamente una buona cosa a fronte dell’equilibrio instabile da cui origina. In campo sociale, autoorganizzazione significa solo questo: tutti gli individui-agenti scelgono e operano in modo, almeno parzialmente, coordinato, con un coordinamento che nasce dal basso, non imposto dall’esterno o da un agente a tutti gli altri. In genere, non è una situazione desiderabile né utile quella che si produce, ad esempio, quando «tutti insieme fanno la stessa cosa» per una moda sociale, un passaparola o un sentiment eccessivamente condiviso. Se, ad esempio, gli individui-agenti a un certo punto si coordinano e quasi tutti insieme decidono di vendere titoli azionari in un mercato, anche in assenza di una causa riconducibile ai fondamentali dell’economia che giustifichi razionalmente la decisione, ma solo per una sensazione che si diffonde fra gli individui-agenti, allora il mercato che prima era disorganizzato, in equilibrio instabile fra domande di vendita e domande di acquisto, si autoorganizza. Quasi tutti allora vogliono vendere ai pochi che acquistano a prezzi sempre più bassi, e il mercato crolla.

 

1.2 Processi evolutivi bottom up nei sistemi urbani e regionali

La pianificazione urbana e regionale, come molte aree disciplinari e professionali, ha sviluppato il proprio specifico approccio sistemico come base per la ricerca e le applicazioni. In questo contesto, i sistemi erano concepiti, da molti anni, come composti da una rete di sottosistemi collegati da interazioni di vario tipo, raggruppabili in sottosistemi più ampi ordinati gerarchicamente. Secondo questa concezione, i processi attivi fra i sottosistemi mantenevano l’equilibrio, e un controllore del sistema aveva il compito di coordinare il funzionamento generale e di guidare il sistema verso obiettivi predefiniti. Proprio l’idea che i sistemi possano essere controllati e guidati verso certi obiettivi è stata la chiave interpretativa della pianificazione urbana e regionale negli anni Cinquanta e Sessanta, quando i problemi legati alla crescita impetuosa della popolazione urbana e al manifestarsi di molte forme di congestione da un lato e di abbandono di risorse dall’altro, cominciarono a porsi con drammatica evidenza in molte aree statunitensi ed europee.

La giornalista e studiosa americana Jane Jacobs, già nel suo celeberrimo libro «Death and Life of Great American Cities», del 1961, argomentava, controcorrente rispetto alle concezioni dominanti all’epoca, che il modo meccanicistico secondo cui era concepito e pianificato il funzionamento delle città era in antitesi a quell’idea di diversità e di differenziazione che è essenziale per rendere le città delle entità vive e vibranti. La Jacobs sosteneva che la pianificazione urbana, così come veniva praticata dopo la fine della seconda guerra mondiale, annientava la animata, esuberante e vitale eterogeneità di cui è improntata la vita urbana e che concorre a rendere le città dei luoghi non solo vivibili, ma segnatamente gradevoli. Argomentava in particolare che le città non dovevano essere viste come sistemi disorganizzati da organizzare in modo dirigistico, omologandole rispetto a schemi predefiniti, e che i problemi delle città dovevano essere affrontati come problemi (si dirà in anni successivi) di complessità organizzata, analogamente a come si fa nelle scienze della vita.

Pensare i sistemi urbani come sistemi che devono essere in equilibrio e intendere la pianificazione come un controllo che mira a riportare il sistema all’equilibrio, qualora questo venisse rotto da cause di qualsiasi natura, apparve sempre più chiaramente in conflitto con l’etero­geneità, l’innovazione e la competizione che sempre più vennero riconosciute essere le chiavi della vitalità e della vivibilità delle città. Apparve altresì chiaro, negli anni successivi, che se si fosse continuato a procedere secondo quella linea, le aree urbane sarebbero ulteriormente scivolate lungo la china che le avrebbe fatte diventare luoghi sempre meno attraenti, spenti, con scadente qualità di vita.

Nelle discipline che vertono sulle aree urbane e regionali, a partire dalla fine degli anni Settanta si è avuta una messe sempre più abbondante di studi che mirano a identificare e stimolare quelle che sono riconosciute essere, in particolare, le chiavi della vivibilità e della vitalità delle città. Tali studi che, si sottolinea, coinvolgono molte discipline anche tra loro assai diverse, si orientano sempre più verso l’idea di favorire l’evoluzione spontanea autoorganizzativa dei sistemi urbani e regionali interpretati nella prospettiva della complessità (si vedano, fra i tanti: Bertuglia e altri, eds., 1987; Pumain, Sanders e Saint-Julien, 1989; Bertuglia, Leonardi e Wilson, eds., 1990; Bertuglia e La Bella, a cura di, 1991; Dendrinos, 1992; Nijkamp e Reggiani, 1992, 1998; Lepetit e Pumain, sous la direction de, 1993; Nijkamp e Reggiani, eds., 1993; Bertuglia, Clarke e Wilson, eds., 1994; Wegener, 1994; Derycke, Huriot e Pumain, sous la direction de, 1996; Allen, 1997; Bertuglia, Lombardo e Nijkamp, eds., 1997; Bertuglia e Vaio, a cura di, 1997; Bertuglia, Bianchi e Mela, eds., 1998; Batten e altri, eds., 2000; Portugali, 2000; Batty, 2003, 2005, 2008).

Da qualche decennio ormai si è diffusa una visione delle società e dei sistemi sociali territoriali, quali per l’appunto sono le città, come organismi sociali; come sistemi biologici in disequilibrio per i flussi cui sono sottoposti, e non come sistemi meccanici da riequilibrare se sono fuori equilibrio; come strutture che si generano continuamente, e non più come strutture che vengono fabbricate esogenamente, quali invece sono le macchine. Le città sono viste non più come artefatti progettati, ma come sistemi complessi a più dimensioni che evolvono per effetto di dinamiche endogene, e che sono caratterizzati, come gli esseri viventi, dalla rottura di strutture esistenti e dalla formazione spontanea di nuove strutture sia dal punto di vista sociale sia da quello economico sia da quello più strettamente fisico. Sistemi urbani come sistemi complessi che possono essere assistiti nella loro evoluzione, in qualche modo gestiti, ma che quasi mai possono essere progettati in modo centralizzato o top down (Wilson, 1981). Ciò in accordo con l’idea che le città crescano dal basso, con processi evolutivi di tipo bottom up, e che siano le azioni concertate di molte migliaia (o milioni) di individui a generare strutture complesse a vari livelli, virtualmente impossibili da controllare, governare o addirittura progettare dall’alto.

Si è assistito così, a partire grosso modo dalla fine degli anni Settanta, a un profondo cambiamento della modellizzazione regionale, e urbana in particolare. Dai modelli di enormi dimensioni, di impostazione dirigistica, sviluppatisi nel secondo dopoguerra, che pretendevano di descrivere nei dettagli ogni aspetto della città, si è passati, negli anni, a una modellizzazione più agile, condotta su basi teoriche differenti. Si è passati a modelli di minori dimensioni, che si concentrano su alcuni aspetti del sistema, che non hanno più l’ambizione di essere onnicomprensivi e previsionali, ma mirano a essere strumenti di analisi e ricerca e, per ciò che attiene direttamente alle scelte, a permettere di anticipare in laboratorio l’esito di eventuali decisioni politiche2 (Batty, 1994).

In questo quadro, hanno richiamato notevole attenzione i cosiddetti modelli di interazione spaziale, una classe vastissima ed articolata di modelli, che si propongono di rappresentare in modo formale le relazioni fra le diverse componenti di un sistema urbano o regionale, come ad esempio la produzione, i servizi, le residenze nelle diverse zone in cui è suddivisa l’area in studio, allo scopo di modellizzare i flussi di persone e cose fra le diverse zone dell’area (si vedano ad esempio: Fotheringham e O’Kelly, 1989; Sen e Smith T.E., 1995). Gli assunti di fondo di tali modelli sono che gli individui siano indistinguibili e che tutti scelgano razionalmente, mirando a minimizzare i costi (ad esempio dei trasporti, delle abitazioni, degli insediamenti produttivi o di altro ancora) e a massimizzare i profitti, secondo quanto farebbe un homo oeconomicus. In più rispetto agli assunti dell’economia neoclassica, vi è l’introduzione della probabilità: l’individuo (nucleo familiare o imprenditore) nel modello decide l’effettuazione o meno del trasferimento da una zona a un’altra dell’area considerata, non solo valutando costi e benefici, ma anche secondo distribuzioni probabilistiche. Non vi è dunque, in questo contesto, l’assunzione dell’esistenza di un equilibrio né locale né generale, e nemmeno il calcolo di stati di equilibrio.

Attualmente, tuttavia, questi modelli riscuotono minore interesse rispetto anche solo a pochi anni addietro, perché il loro carattere intrinsecamente deterministico, sia pure con l’applicazione della teoria della probabilità, è in accordo con le dinamiche osservate e interpretate come caotiche, ma può adattarsi alle dinamiche complesse solo nel caso che esse siano relativamente semplici. Nei modelli di interazione spaziale possono manifestarsi solo semplici fenomeni di autoorganizzazione spaziale, sotto forma di aggregazioni endogene delle localizzazioni. Fenomeni di emergenza più complicati, che racchiudano in sé differenti aspetti e che, per essere compresi, debbano essere visti in una prospettiva pluridimensionale, come si riscontra sovente nei fenomeni di carattere sociale, non riescono a essere descritti efficacemente. Ciò perché nei modelli di questo tipo non compare l’interazione non lineare fra gli agenti, e neppure alcun elemento che si riferisca alla loro individualità e soggettività, nonché all’autonomia delle scelte.

È possibile, tuttavia, che lo sviluppo di tali modelli, secondo nuove linee di ricerca e con approcci differenti, porti in futuro i modelli delle dinamiche urbane e regionali basati sull’interazione spaziale a fondersi con l’approccio della complessità, dando luogo a un quadro interpretativo teorico nuovo e più profondo. Per un’efficace descrizione in termini modellistici delle dinamiche regionali e, in particolare, urbane, devono essere presi in considerazione nuovi elementi. Ad esempio, devono essere considerate le interazioni non lineari fra i singoli individui (abitanti stabili nell’area considerata, imprenditori, persone che vi risiedono temporaneamente, pendolari che generano flussi da e verso altre aree ecc.) e la diversità dei processi mentali dei singoli individui che portano alla decisione individuale di una rilocalizzazione. Si deve altresì tener conto del fatto che l’informazione di cui gli individui dispongono è incompleta e che la conoscenza che i singoli individui traggono dalle informazioni incomplete, e che determina la scelta, è soggettiva. Lo stesso utilizzo delle distribuzioni di probabilità nei modelli spaziali presenta il problema che, in un certo senso, rende omogenei i singoli agenti, invece di differenziarli, in quanto schiaccia in termini di probabilità le differenze individuali e le non linearità delle interazioni (si vedano ad esempio: Boyce, Nijkamp e Shefer, eds., 1991; Reggiani, ed., 2000; Fujita, Krugman e Venables, 2001; Pumain, ed., 2006; Lane e altri, eds., 2009).

Lo studio di una modellistica appropriata, condotto secondo l’ap­proccio della complessità, porta verso una direzione nella quale il sistema urbano o regionale viene guidato dal basso, con un processo bottom up nel quale agiscono meccanismi endogeni legati alle scelte degli individui: una direzione che conduce lontano dalla visione dirigistica. Nelle scelte individuali, piccoli dettagli possono avere grande influenza sul comportamento. Peraltro, gli individui non sono in grado di fare previsioni perfette, per le quali dovrebbero essere onniscienti; devono tuttavia compiere delle scelte, anche se le previsioni che essi riescono a fare sono imprecise e distorte. Come indicano le ricerche di questi ultimi decenni, il processo decisionale individuale presenta falle e incongruenze. Gli individui, di fatto, non sempre compiono scelte che risultano coerenti con gli obiettivi che, nelle intenzioni, essi vorrebbero perseguire, o che sono migliori delle scelte che potrebbero essere fatte da qualcun altro. Identificando opportunamente interventi di piccola portata, incentivi e pungoli di vario tipo, dal ridotto impatto momentaneo (le «spinte gentili» di Thaler e Sunstein, 2008), che non vadano contro le libertà di scelta individuali, ma assistano gli individui nelle loro libere scelte, la ricerca nelle scienze della società potrebbe concorrere al miglioramento della vita delle persone e alla soluzione dei problemi della società in generale.

Parte II: I fondamenti della prospettiva della complessità in economia

2.1 I sistemi complessi

Da una quarantina d’anni ormai, come abbiamo detto, l’approccio della complessità o, come viene più semplicemente detto, la complessità richiama in modo crescente l’attenzione degli studiosi, configurandosi di grande efficacia per la descrizione, l’interpretazione e una più profonda comprensione di numerosi fenomeni nelle scienze sia della natura sia della società (Bocchi e Ceruti, a cura di, 1985). La complessità si sviluppa nell’ambito della precedente visione sistemica dei fenomeni, differenziandosi tuttavia da questa perché le aggiunge qualcosa di peculiare: l’attenzione al fatto che dalla dinamica non lineare di un sistema possono originare fenomeni cosiddetti emergenti, imprevedibili a priori, i quali danno luogo a forme di autoorganizzazione del sistema. Si parla di emergenza, in questo contesto, quando il sistema manifesta un comportamento che va oltre ciò che è prevedibile dalla semplice somma dei comportamenti individuali dei componenti del sistema stesso, che quindi non è (o non è più) interpretabile in chiave riduzionista. Si parla di autoorganizzazione quando il sistema, seguendo la propria dinamica endogena, evolve verso stati di equilibrio non calcolabili a priori. Tecnicamente, si parla di autoorganizzazione quando la dinamica del sistema presenta degli attrattori verso i quali il sistema tende a portarsi, se si trova nel bacino di attrazione di uno di questi; attrattori che svolgono quindi il ruolo di stati di stabilità dinamica. Anch’essi, però, non sono calcolabili a priori come somma degli equilibri delle singole parti del sistema (si veda: Bertuglia e Vaio, 2003, 2005).

Come abbiamo già sottolineato, la complessità in sé non è una nuova disciplina scientifica, e non è nemmeno un ramo specializzato separatosi da una disciplina già esistente. Si tratta invece di un modo di guardare alle cose3 che, seppure non del tutto nuovo, in questi ultimi decenni, in particolare a partire dagli anni Settanta, si è prepotentemente imposto in molte discipline, sia nelle scienze della natura sia in quelle della società. L’uso del termine «complessità» in quest’accezione è relativamente recente, ma i concetti che tale termine esprime furono anticipati, o in qualche modo intravisti secondo modalità diverse, da vari studiosi in passato. Tanto per citare qualche esempio significativo, l’idea che «il tutto è più che la somma delle parti» è esplicitamente proposta nei «Principia Ethica» (1903) del filosofo inglese George Edward Moore. Tale opera ebbe grande influenza sulla formazione intellettuale del giovane Keynes (si veda, ad esempio: Bateman, 1996), il quale nel suo «Treatise on Probability» (1921) osservava, discutendo il metodo dell’induzione logica, come l’induzione con la quale si danno descrizioni generali di un sistema, ricavandole dai comportamenti individuali dei suoi componenti elementari, si fondi sull’assunzione che solo un numero finito di caratteristiche di un sistema siano rilevanti e che, pertanto, quanto più è grande il numero di costituenti di un sistema, tanto meno il metodo induttivo è applicabile. Il metodo dell’induzione, argomenta Keynes, perde ogni validità nel caso dei sistemi con un numero di componenti talmente elevato da non consentire di ricavare il comportamento dei sistemi a partire da quelli individuali dei componenti; sistemi che egli chiama «organici».

La prima vera e propria discussione della complessità dei sistemi è contenuta in un lavoro del matematico americano Warren Weaver: «Science and Complexity», del 1948. In quel lavoro, discutendo sul ruolo e sul futuro della scienza, Weaver osservava come le aree tematiche identificate e studiate nel corso dello sviluppo della scienza (e in particolare della fisica) si possono mettere in relazione con tre grandi categorie entro cui raggruppare i fenomeni: la categoria della semplicità, quella della complessità non organizzata e quella della complessità organizzata. In un celebre lavoro del 1962, «The Architecture of Complexity», Herbert Simon, premio Nobel per l’economia nel 1978, osservava che tutti i sistemi complessi, in realtà, mostrano caratteristiche comuni, indipendentemente dal fatto che siano sistemi sociali, biologici o fisici, e che frequentemente nei sistemi complessi si riconosce una struttura gerarchica. Philip Warren Anderson, studioso di fisica della materia condensata, premio Nobel per la fisica nel 1975, in un lavoro pubblicato nel 1972 sulla rivista Science, significativamente intitolato «More is Different», anch’esso divenuto celebre, richiamò esplicitamente l’attenzione degli studiosi (e in particolare dei fisici) sulla necessità di un approccio complesso ai sistemi, a fronte di quello riduzionista tradizionalmente a fondamento dei metodi della fisica, per comprendere le proprietà emergenti dei sistemi stessi.

Nella seconda metà del Novecento, suscitarono molto interesse la teoria generale dei sistemi di Ludwig von Bertalanffy (1968) e Heinz von Foerster (1981) e la cibernetica, iniziata da Norbert Wiener (1948) e William Ashby (1956). Le ricerche in entrambi i settori contribuirono in modo sostanziale alla formazione dell’approccio sistemico che richiamò grande attenzione soprattutto nell’ambito delle scienze della società, con la parziale eccezione della scienza economica che in quegli anni disponeva di tecniche matematiche consolidate, assenti in altre discipline di quell’ambito, ed era dominata dagli studi sull’equilibrio.

Emerse presto, tuttavia, la consapevolezza che la prospettiva sistemica adottata era di vedute anguste e che la maggior parte dei sistemi non sono sistemi in equilibrio, né possono essere spinti verso un equilibrio stabile predeterminato. Cominciò ad apparire chiaro che i sistemi non reagiscono passivamente ad azioni esogene, fra le quali anche i flussi di energia, informazione e materia a cui sono soggetti, ma reagiscono manifestando continuamente nuove strutture che si formano endogenamente. Apparve chiaro anche che ciò accomuna, in generale, sia sistemi oggetto della fisica4 sia sistemi biologici sia sistemi sociali e, fra questi ultimi, in particolare i sistemi economici. In realtà, già tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, prima quindi dello sviluppo stesso della teoria dei sistemi, nei lavori di alcuni economisti di grandissimo rilievo, principalmente Ludwig von Mises, Friedrich August von Hayek, premio Nobel per l’economia nel 1974, e Herbert Simon, furono avanzate idee che anticipavano sostanzialmente molti elementi della visione complessa dei sistemi economici come ora brevemente diremo (per una trattazione più adeguata, si veda: Bertuglia e Vaio, in corso di stampa).

Ludwig von Mises (1949) introduce la «prasseologia», una forma di teoria generale dell’azione umana, che si occupa dell’agire umano (praxis) dal punto di vista della sua efficacia; una teoria la cui essenza trova le proprie radici nell’uomo che agisce, nell’essere umano inteso come un individuo agente. Non dunque l’uomo considerato come un oggetto-atomo che si muove come se fosse sottoposto soltanto a leggi simili a quelle della fisica, secondo la visione neoclassica, bensì un uomo visto come un individuo consapevole, che agisce autonomamente, con fini e obiettivi determinati. Per von Mises, l’unica teoria economica valida deve derivare logicamente dai principi basilari dell’azione umana: l’intero funzionamento della macchina economica è il risultato di ciò che i singoli individui liberamente e consapevolmente decidono e fanno. Per von Mises, come peraltro per la Scuola di Vienna, di cui lo stesso è stato un significativo rappresentante, i fenomeni economici, come i prezzi, i salari, i tassi di interesse, la moneta, il monopolio e perfino il ciclo economico, sono l’esito, oggi diremmo autoorganizzativo, di innumerevoli azioni di individui tutti differenti fra loro, consapevoli, che si pongono degli obiettivi, che hanno delle preferenze, che scelgono e che agiscono singolarmente all’interno di una società.

Tutti questi individui-agenti sono pertanto gli elementi del sistema economico, un sistema che nel linguaggio contemporaneo diremmo complesso, che evolve e si autoorganizza. Ciascuno di questi individui fa del suo meglio, nelle circostanze in cui si trova ad agire, per perseguire gli scopi prefissi e per evitare le conseguenze indesiderate (si vedano anche: Infantino, 2007, la monografia dedicata a von Mises nella collana «I momenti d’oro dell’economia», curata da Paolo Savona; e le riflessioni generali nel libro che chiude la collana: Savona, 2008).

Friedrich von Hayek (1937, 1945, 1952, 1964, 1973, 1976, 1979) introduce la fondamentale distinzione tra quelle regole sociali che sono il risultato di un piano consapevole e di una mente ordinatrice, e le altre regole sociali che emergono come una forma di ordine spontaneo: il risultato inconsapevole e graduale dell’esperienza accumulata di molte generazioni5. Grave errore è, per Hayek, fare del primo tipo di organizzazione sociale il paradigma di ogni tipo di ordine: è questo l’errore dell’approccio razionalistico cartesiano che si è trasmesso alle spiegazioni istituzionali, approccio che vede dietro ogni struttura organizzativa una razionalità ordinatrice. Per Hayek l’ordine spontaneo è legato all’uso della conoscenza nella società e al modo in cui la conoscenza è trasmessa attraverso l’interazione sociale. Le società moderne sono caratterizzate, secondo Hayek, da un ordine complesso, in cui la conoscenza esiste solo in una forma frammentata e individuale: per questo è vano sperare che una mente ordinatrice superiore sia in grado di ricondurre sotto il proprio controllo consapevole i numerosi frammenti di tale sistema sociale.

Nessuna mente singola è in grado di ricostruire l’informazione mancante, di ritrasmettere agli agenti tutta l’informazione, con l’elevato grado di precisione e di dettaglio richiesto da ogni decisione individuale, e di coordinare le scelte. Per Hayek esiste, invece, un meccanismo di interazione sociale che è in grado di utilizzare la conoscenza dei singoli individui e che realizza il coordinamento, ma che non dipende né da alcuno di essi in particolare né da un’entità esterna al sistema. L’ordine complesso che ne viene, non è creato ma è un ordine spontaneo che si autogenera per mezzo di un continuo processo di sperimentazione e confronto. Tale ordine si realizza attraverso un sistema di diffusione non deliberata dell’informazione. È attraverso un processo del tipo detto che sono emerse, ad esempio, le regole di coordinamento sociale, come il linguaggio, i codici di condotta e le regole giuridiche.

Per Hayek il mercato rappresenta uno degli esempi più significativi di sistema spontaneo di regole di coordinamento: il sistema dei prezzi fornisce a ciascun individuo le informazioni sulla base delle quali egli elabora le scelte economiche. Il coordinamento delle decisioni economiche è l’esito dell’informazione fornita dai prezzi. Mercato e prezzi sono, per Hayek, un sistema di comunicazione spontaneo e rappresentano così, in sostanza, il sistema di regole astratte che si sostituisce alla conoscenza completa dell’infinità di circostanze individuali posseduta da una mente centrale organizzatrice.

Poiché i meccanismi di percezione e di costruzione della conoscenza sono intrinsecamente soggettivi, i processi decisionali individuali avvengono, per Hayek, secondo meccanismi diversi da quelli previsti dalla teoria economica standard. Per lui non si tratta di meccanismi di semplice imitazione o di economizzazione delle facoltà mentali. Il meccanismo del mercato funziona non solo perché gli individui possiedono informazioni diverse, ma anche perché essi interpretano differentemente l’uno dall’altro le medesime informazioni, in quanto sia la classificazione operata dalla mente sia l’azione sono processi soggettivi legati all’esperienza personale e al patrimonio geneticamente acquisito.

I prezzi sono, per Hayek, gli elementi fondamentali dell’informa­zione che gli agenti nel mercato si scambiano incessantemente; informazione che forma la conoscenza in continuo divenire, in quanto ogni agente, individualmente, la rielabora. La conoscenza individuale, cosa ben diversa dall’informazione, è ciò che determina le azioni individuali in un mercato che è un sistema in continua evoluzione e che vede i prezzi come un effetto di autoorganizzazione interna. Il mercato è dunque per Hayek un sistema con le proprie dinamiche interne, esito della conoscenza diffusa e circolante, rispetto al quale le istituzioni hanno il solo compito di garantirne il funzionamento (si vedano: Clerico e Rizzello, a cura di, 2000; Rizzello, 2004; Antiseri, 2007; Savona, 2008).

Il pensiero di Herbert Simon, grande e singolare figura di scienziato poliedrico, inizialmente si sviluppa lungo la linea dell’economia neoclassica, ed è grandemente influenzato dal dibattito sul marginalismo sviluppatosi negli anni Trenta. Nella propria vastissima produzione scientifica (si vedano, fra i tanti: Simon, 1947, 1955, 1957, 1959, 1960, 1962, 1967, 1972, 1979, 1983, 1991), Simon introduce il nuovo fondamentale concetto di razionalità limitata (bounded rationality), sostituendo al paradigma neoclassico dell’homo oeconomicus, cioè a un’astrazione di uomo dotato di razionalità assoluta e capace di elaborare l’informazione completa cui ha accesso, il paradigma del cosiddetto administrative man, espressione tratta dal titolo del suo primo e più celebre libro, pubblicato nel 1947, scritto intorno ai trent’anni di età come tesi di dottorato.

Con l’administrative man, Simon propone un agente che, pur razionale nelle proprie intenzioni, vale a dire nell’individuazione degli obiettivi, dispone tuttavia di informazioni limitate e di capacità intellettive limitate per l’elaborazione delle informazioni. Il concetto di razionalità limitata si sostituisce alla razionalità pura dell’homo oeconomicus neoclassico. Per Simon l’individuo opera le proprie scelte secondo la razionalità; questa però si scontra sia con le limitazioni della conoscenza dei dati di cui l’individuo dispone sia con le intrinseche limitazioni delle capacità cognitive dell’individuo stesso6. L’individuo-agente per Simon è razionale, ma non è onnisciente né la sua capacità di elaborazione dei dati è illimitata. L’esame soggettivo delle informazioni sulle alternative di scelta è parziale, in quanto si arresta quando viene identificata un’alternativa di scelta accettabile, che appaia migliore delle altre alternative, le quali sono state esaminate sufficientemente a fondo, ma non completamente. Di fatto, secondo Simon, l’agente non potrà mai essere sicuro che la scelta che opera sia quella ottimale.

Simon identifica la causa della non completa razionalità delle decisioni nell’impossibilità per l’individuo di elaborare e utilizzare convenientemente tutta la vasta mole di informazioni di cui dispone. È la dimensione cognitiva che conta, è la stessa conoscenza individuale che intrinsecamente, nei suoi meccanismi di formazione e autoorganizzazione, conduce inevitabilmente verso la soggettività e l’eterogeneità delle decisioni, verso la diversità dei comportamenti individuali e quin­di verso la loro sostanziale imprevedibilità. L’obiettivo di un’impresa dunque, secondo Simon, non è massimizzare i profitti, obiettivo eccessivamente ambizioso e sostanzialmente irrealizzabile, ma trovare soluzioni accettabili a problemi urgenti. Simon, in particolare, propone come metodo migliore per studiare problemi di questa natura, la modellizzazione con simulazioni al computer, secondo i metodi dell’intelli­genza artificiale, disciplina della quale egli è stato uno dei padri e figura di riferimento per lungo tempo.

2.2 Gli agenti di un sistema complesso

La nuova visione dei sistemi secondo l’approccio della complessità mostra, come si usa dire con un aforisma, che «il tutto è più che la somma delle parti». In questa nuova prospettiva, la struttura sistemica emerge dalle parti componenti non come l’esito di un semplice processo di somma dei comportamenti delle parti prese isolatamente, bensì come l’esito dei processi stessi, non predeterminabile nel comportamento di una singola parte del sistema. Si cita spesso, a questo proposito, l’esempio della molecola d’acqua che in sé non è né solida né liquida né gassosa: la liquidità dell’acqua è una proprietà emergente di un sistema di molecole in interazione, la quale dipende dalla singola molecola, ma non appartiene alla singola molecola. I processi generano l’autoorganizzazione e l’emergenza. Della nuova visione della complessità hanno beneficiato in modo particolare le discipline meno formalizzate dal punto di vista matematico. I metodi di indagine di tali discipline hanno trovato nella complessità un quadro interpretativo potente ed efficace, più che non uno strumento tecnico vero e proprio, come è invece, tanto per intenderci, il calcolo differenziale nella fisica e nell’economia di impostazione neoclassica.

Nelle scienze della natura, e in particolare nella fisica che già possiede i potentissimi metodi forniti dal calcolo differenziale, la complessità si affianca ai metodi quantitativi di impostazione riduzionista, applicati quasi sempre con grandissimo successo da più di tre secoli, e li sostituisce ove questi si dimostrino poco efficaci. Ciò accade ad esempio nella descrizione del fenomeno della turbolenza nei fluidi. La visione riduzionista della fisica tradizionale non è efficace in questo contesto, non riesce cioè a giustificare la formazione dei vortici in un gas che si osserva sotto certe condizioni: vortici di scale diverse, il numero dei quali, espresso in funzione della scala, segue una legge di potenza, cioè una legge del tipo . Per dar conto del comportamento macro­scopico del gas non è efficace lo studio condotto tradizionalmente, che vede il comportamento macroscopico come somma dei comportamenti microscopici. Non è sufficiente cioè cominciare a livello micro, partendo dalle dinamiche delle singole molecole prese isolatamente, e poi assemblare le dinamiche, sia pure con metodi statistici e ricorrendo a valori medi delle grandezze rilevanti. Si impone invece un approccio complesso, nel quale si studia il sistema gas a varie scale spazio-temporali, attraverso le quali l’energia immessa a livello macro si trasferisce a cascata verso livelli micro, alimentando vortici di scale sempre più piccole (si veda: Bertuglia e Vaio, in corso di stampa).

In molte altre scienze della natura e in quasi tutte le scienze della società, l’approccio della complessità e l’introduzione del concetto generale di sistema complesso adattivo costituiscono il primo quadro interpretativo in grado di fornire uno schema unitario in cui inserire le fenomenologie osservate. Un sistema complesso adattivo, l’oggetto cui è rivolta l’attenzione della complessità, è un sistema aperto (un sistema cioè che scambia flussi di varia natura con l’ambiente) formato da un gran numero di elementi che interagiscono fra loro in modo non lineare i quali, presi collettivamente, costituiscono un’entità organizzata e dinamica che evolve autonomamente e si adatta all’ambiente in modo spontaneo. Le fenomenologie osservate non vengono più descritte, in tal modo, come una serie di fatti isolati, bensì come la manifestazione spontanea di proprietà che sono implicite nelle interazioni fra gli elementi del sistema allo studio e che pertanto caratterizzano specificamente tale sistema.

Il sistema complesso adattivo presenta alcune caratteristiche peculiari che lo distinguono dai sistemi considerati dalla teoria dei sistemi precedente. Nelle scienze della società, perlopiù, come abbiamo accennato nella Parte I a proposito dei sistemi urbani e regionali, i componenti di un sistema complesso sono visti come agenti, cioè come individualità dotate di una propria autonomia nelle scelte e nel comportamento conseguente. Gli agenti possono essere, ad esempio, gli operatori di un’economia di mercato, le imprese e in genere i partecipanti in un mercato. Quest’ultimo, in tal modo, viene visto come un sistema la cui dinamica complessiva è l’esito non preventivato dall’esterno né prevedibile, ma prodotto endogenamente dagli agenti, quale risulta dalle interazioni non lineari fra gli agenti stessi che si scambiano informazioni di tutti i tipi e nei modi più disparati.

Gli agenti interagiscono secondo modalità non lineari e sono soggetti a feedback (o retroazioni) ambientali di vario tipo, anch’essi non lineari. Non lineari (o non additive) significa, in termini molto generali, che non c’è relazione di proporzionalità fra l’effetto e la causa che lo ha determinato. Significa, ad esempio, che due o più azioni contemporanee compiute da due o più agenti e rivolte a un altro agente, non danno come effetto su quest’ultimo semplicemente la somma dei due o più singoli effetti. Si ha, invece, che quest’ultimo agente rielabora individualmente le azioni, le quali, per fare un esempio, potrebbero essere le informazioni che egli riceve, scegliendo autonomamente il proprio comportamento conseguente. Ciò può svolgersi attraverso l’applicazione di regole interne degli agenti, le quali specificano la strategia di interazione con altri agenti; regole in continuo divenire, organizzate in modo tale da fornire all’agente che le applica un modello in evoluzione del mondo esterno (Gilbert e Terna, 2000; Rabino, 2005).

Un agente di un sistema complesso adattivo si adatta, appunto, al mondo che lo circonda e con cui è in interazione, e quindi si adatta al comportamento degli altri agenti, attraverso un processo di apprendimento ininterrotto e senza fine, che si fonda su un continuo feedback dell’informazione che l’agente riceve. In virtù di ciò, ogni agente, accumulando esperienza e cercando di migliorare gli esiti delle proprie azioni, forma e modifica continuamente le proprie regole interne, adattandole all’esperienza elaborata attraverso il proprio individuale punto di vista, egocentrico e circoscritto. Tale punto di vista, si badi bene, in generale non è da intendersi come quello dell’homo oeconomicus della teoria economica neoclassica, il quale mira a massimizzare una funzione matematica chiamata «utilità», muovendosi in un orizzonte ristretto, incapace sia di apprendimento sia di una visione rivolta a obiettivi lontani.

Lo studio delle reti fra agenti di tipo socioeconomico è un campo di indagine che si è recentemente molto sviluppato: nelle reti socioeconomiche, gli agenti (individui singoli, nuclei familiari, imprese ecc.) interagiscono attraverso la rete che li collega per scambiare informazioni, beni e risorse, per stabilire nuove partnership, collaborazioni, amicizie e altro ancora. La struttura, il grado di connettività della rete attraverso cui avvengono le interazioni fra gli agenti, così come la stabilità della rete a fronte della modifica di una o più connessioni e la variabilità della rete nel tempo, hanno un effetto importante sulla dinamica del sistema socioeconomico che origina dalle scelte degli agenti che sono parte di quel sistema. Per la comprensione approfondita dell’organizzazione sociale è pertanto fondamentale elaborare teorie efficaci per la comprensione di come si formino e si sviluppino tali reti.

Si può pensare alla città come a un tipico esempio di sistema complesso costituito da una rete di tipo socioeconomico di connessioni fra gli agenti, in cui le connessioni sono mutevoli nel tempo e diffuse nel spazio. Il livello di connettività che si realizza in un’area urbana, riferito alla densità dello spazio occupato, evolve nel tempo ed è proprio quello che permette alla città di esistere e funzionare come tale. Il grado di connessione di un’area urbana è conseguito, in realtà, in un insieme di reti non lineari che si distribuiscono su molte scale geografiche e temporali. Quando il detto grado di connessione in un insediamento raggiunge un valore che si può considerare critico, ciò può essere interpretato come indicazione del fatto che il sistema realizzatosi ha raggiunto un livello di autoorganizzazione interna tale da caratterizzare l’insediamento stesso come sistema città. Al di sotto di tale livello, il sistema-città non sarebbe connesso a sufficienza per permetterne il funzionamento. Se, al contrario, la connettività fosse maggiore, lo spazio sarebbe occupato più densamente e la rete conterrebbe ridondanze che diverrebbero fonte di inefficienze. Un insediamento diventa una città, in altri termini, quando le reti delle connessioni non lineari fra gli agenti, evolvendo nel tempo, portano a un fenomeno simile a ciò che in fisica è chiamato una transizione di fase, come quello che si osserva nella condensazione di un vapore o nella solidificazione di un liquido (Batty, 2005, 2008; Wilson, 2006, 2008).

La teoria economica, perlopiù, si è rivolta allo studio delle reti in equilibrio e dei meccanismi di formazione delle reti basati sulla massimizzazione dell’utilità. Ciò è avvenuto avendo come obiettivo sia il riconoscimento di quali reti abbiano la massima efficienza sia lo studio della stabilità delle reti a fronte di aggiunte o rotture di legami. I model­li analitici che così sono stati prodotti sono in realtà troppo semplici per molti sistemi socioeconomici, a causa delle assunzioni semplificatrici che si rendono necessarie per renderli trattabili analiticamente.

Nell’economia neoclassica tradizionale, peraltro, non sono nuovi i concetti di feedback e di fenomeno emergente, tipici della complessità: in questo senso, la scienza economica ha in parte già anticipato alcuni elementi della complessità. La teoria dell’equilibrio economico generale, ad esempio, è in un certo senso una formalizzazione della proposizione secondo la quale «in economia ogni cosa influenza ogni altra cosa», per cui la variazione della domanda o dell’offerta di un bene influisce sulle domande e sulle offerte di tutti gli altri beni presenti nel mercato, spostando la condizione di equilibrio attraverso un meccanismo di feedback. Anche il concetto di fenomeno emergente, fenomeno collettivo imprevedibile a partire dal singolo elemento del sistema, è presente nella scienza economica, abituata da tempo a considerare varie forme di fenomeni collettivi. Un esempio di fenomeno emergente ben noto è, ad esempio, il ciclo economico, in cui tutti gli agenti interagiscono in modo non lineare, ricevono feedback dalle loro azioni e danno origine a un fenomeno collettivo, l’alternarsi periodico di fasi economiche diverse, che, di fatto, è indipendente dalla volontà dei singoli agenti. Non solo. Se ritorniamo alle origini del pensiero economico moderno, la stessa mano invisibile di Adam Smith si configura con le caratteristiche di fenomeno emergente. La mano invisibile non è un agente del mercato, non è la decisione di alcun agente né di un coordinatore esterno: per Smith, il mercato, messo in moto dagli egoismi individuali, si comporta «come se» fosse guidato da una mano invisibile verso la realizzazione del benessere collettivo. È proprio il «come se» a rendere la mano invisibile un fenomeno emergente, indipendente dalla volontà individuale degli operatori economici (Krugman, 1996).

Nella teoria economica classica è invece considerato più raramente il concetto di autoorganizzazione, o autoadattamento, di un sistema. L’autoorganizzazione è un processo per il quale un sistema in equilibrio instabile può spontaneamente riassestarsi, coordinando le dinamiche delle singole componenti in un nuovo stato di equilibrio stabile e dando origine a fenomeni emergenti. È l’idea, come diremo meglio nel Capitolo 2.3, che un sistema sia in grado autonomamente, per effetto delle proprie dinamiche interne, di formare spontaneamente delle strutture interne ordinate, anche partendo da uno stato omogeneo di disordine o casuale. Un sistema complesso adattivo è un sistema che manifesta la detta proprietà.

In accordo con Holland (2002), è opportuno introdurre il concetto generale di componente di base di un sistema complesso adattivo. I componenti di base sono gli elementi minimi che stanno a fondamento della capacità di scegliere e di agire che hanno gli individui-agenti che formano un sistema complesso. Ad esempio, ogni forma di percezione umana consiste nel combinare insieme componenti semplici e conosciuti, i componenti di base per l’appunto. Alberi diversi possono essere riconosciuti come alberi secondo diverse combinazioni di parti semplici e familiari nell’esperienza individuale: tronco, rami, foglie ecc. Allo stesso modo, i volti umani sono tutti diversi fra loro, ma tutti sono combinazioni di elementi standard, percepiti come elementi minimi: occhi, naso, bocca, capelli e così via, e tutti quanti insieme ci permettono sia di riconoscere i volti sia di distinguere un volto da un altro. Il nostro approccio a tutti gli oggetti e a tutti i fenomeni, familiari o sconosciuti che essi siano, avviene attraverso la combinazione di componenti di base familiari. I componenti di base possono essere visti anche come gli elementi che caratterizzano le interazioni fra agenti e che sono all’origine delle dinamiche: le regole non lineari che descrivono le interazioni fra individui-agenti in un sistema complesso, ad esempio, sono componenti di base.

Un insieme con un numero non molto grande di componenti di base ben individuati può essere sufficiente per generare un insieme molto grande di strutture sistemiche. Questo è ciò che avviene, ad esempio, con un numero limitato di lettere dell’alfabeto di una lingua, le quali permettono di esprimere tutta la letteratura di quella lingua e di veicolare tutta la comunicazione scritta passata, presente e futura in quella lingua. In generale, in qualsiasi sistema, i componenti di base sono gli elementi fondamentali della conoscenza che si ha di quel sistema.

Vi è una proprietà fondamentale dei componenti di base di un sistema complesso. Essi si possono organizzare in strutture identificabili entro il sistema: sottosistemi che diventano essi stessi dei componenti di base del sistema. In altre parole, i componenti di base si possono aggregare in componenti di base di livello superiore e si possono frammentare in componenti di base di livello inferiore. Caratteristica tipica dei sistemi complessi adattivi è che vi è un’organizzazione gerarchica dei componenti di base per la quale si hanno diversi livelli ai quali un sistema complesso può essere esaminato, e con cui si può interagire.

2.3 Le proprietà emergenti

Non esiste una definizione di emergenza che sia accettata universalmente, e che indichi senza ambiguità e in modo generale in quali circostanze in un sistema complesso si manifesta un fenomeno cosiddetto emergente. Perlopiù, si ritiene che l’emergenza vada in gran parte riferita agli occhi di chi osserva e interpreta il fenomeno. È possibile tuttavia riconoscere alcuni criteri che permettono di individuare quei fattori che, indipendentemente dalla soggettività dell’osservatore, indicano la presenza di fenomeni emergenti.

Un primo criterio è la condizione che il fenomeno si presenti come uno schema che si ripete, in un sistema che, a sua volta, manifesta continuamente delle novità. Questo schema ricorrente si manifesta come una proprietà caratteristica di alcuni sottosistemi che si possono identificare fra le numerose combinazioni dei componenti di base del sistema. Si usa spesso, per indicare queste ripetizioni, il termine «regolarità». Il termine in oggetto, nel contesto delle scienze della natura e in particolare della fisica, viene spesso considerato come una sorta di forma debole del termine «legge». Con il termine «legge», infatti, si intende solitamente l’estrapolazione condotta su basi induttive della regolarità osservata, che porta a esprimere la regolarità su un piano generale, teorico e in modo rigoroso e formale, giungendo spesso, per cattiva abitudine, ad attribuire alla formulazione datane un certo carattere dogmatico e impositivo. In molte scienze della natura, soprattutto in quelle di tradizione più recente, meno formalizzate e raramente espresse in forme altrettanto dure di quelle della fisica, più correttamente si insiste sulla base empirica delle ripetizioni osservate nei fenomeni, utilizzando sempre meno frequentemente il termine «legge». Da questo punto di vista, fra le scienze della società, un caso a sé è costituito dalla scienza economica, sicuramente la più formalizzata fra le dette scienze, quale si è formata a partire dalla tradizione neoclassica e marginalista dagli anni Settanta dell’Ottocento.

Negli studi economici sviluppatisi a partire dalla rivoluzione marginalista, si creano modelli matematici che si fondano su concezioni sistemiche dei processi economici secondo linee di pensiero che, almeno alle loro origini, sono state mutuate dalla fisica classica, lungo la linea indicata da Walras, Menger e Jevons prima, Marshall e Pareto poi, fino ad arrivare a Samuelson e alla grandiosa sintesi formale realizzata nella teoria dell’equilibrio generale di Arrow e Debreu (Arrow e Debreu, 1954; Debreu, 1959. Sul tema dell’equilibrio generale nella storia del pensiero economico, si veda: Ingrao e Israel, 1987). Nella scienza economica neoclassica, la formalizzazione matematica e il rilevante grado di astrazione, che peraltro è alla base stessa della sua realizzazione, conducono inevitabilmente a formulare leggi che, per quanto originate da modelli, finiscono ugualmente per assumere un carattere estremamente generale, ben oltre il significato attribuito alle regolarità osservate (Israel, 1996, 2007).

Le regolarità osservate nel corso dell’evoluzione nel tempo (o, come si usa dire, nella dinamica) di un sistema complesso adattivo individuano aspetti comuni nel comportamento di un sottoinsieme degli agenti. Se le regolarità si rinforzano per effetto delle interazioni fra gli agenti e diventano persistenti, per una sorta di processo di specializzazione e selezione, allora esse stesse assumono il ruolo di componenti di base. Ciò può portare al formarsi nel sistema di un’organizzazione gerarchica, nella quale particolari combinazioni di alcuni elementi componenti di base a un dato livello, diventano componenti di base a un livello superiore, come descritto al Capitolo 2.2. L’osservazione di una siffatta proprietà costituisce un secondo criterio per riconoscere nei sistemi la natura di sistemi complessi adattivi. I fenomeni nei sistemi complessi adattivi sono emergenti se mostrano un’organizzazione gerarchica nella quale diversi livelli gerarchici interagiscono fra loro sia con azioni rivolte dall’alto verso il basso (top down), cioè da livelli di organizzazione superiori a livelli di organizzazione inferiori, sia con azioni di verso opposto, dal basso verso l’alto (bottom up).

Consideriamo, ad esempio, un organismo vivente come l’uomo, tipico esempio di sistema complesso, incomprensibile in una chiave di lettura riduzionista. L’intenzione formulata dal cervello in risposta a uno stimolo, ad esempio, di compiere un movimento della mano, un componente di base del sistema, causa l’invio di segnali nervosi verso molte parti dell’organismo vivente, segnali che influenzano così un numero enorme di componenti secondo un processo top down; viceversa, un guasto o un cattivo funzionamento di una sola parte critica dell’organismo umano può portare, con un processo bottom up, all’arresto totale del funzionamento dell’organismo e alla sua morte. Per fare ancora un tipico esempio di sistema complesso adattivo, consideriamo un mercato finanziario: sebbene un indice globale del mercato, come ad esempio l’indice Dow Jones per il New York Stock Exchange, sia una media ricavata con un processo bottom up a partire dalle frequenti azioni di numerosissimi agenti che operano freneticamente nel mercato stesso, il movimento del valore di questo indice causa un’azione di ritorno, secondo un processo top down, influenzando i singoli agenti-operatori nei loro comportamenti individuali e nelle loro scelte. In generale, la forma complessiva e la persistenza di una regolarità in un sistema complesso adattivo dipendono sia da processi bottom up sia da processi top down.

Un ulteriore importante criterio che può consentire di individuare una proprietà emergente è che la regolarità osservata appare solo come proprietà collettiva del sistema, imprevedibile guardando solo i componenti individualmente: il tutto è più della somma delle parti. Ciò è in netta opposizione al punto di vista riduzionista per l’analisi dei fenomeni, tipico di gran parte della scienza classica, in particolare della fisica classica, che consiste nello studiare i componenti di base di un sistema e nel sommarne i comportamenti per ottenere il comportamento complessivo. In molti rami delle scienze della natura, soprattutto in fisica, la strategia riduzionista ha funzionato e funziona molto bene in numerose occasioni: dalla descrizione dei gas perfetti, visti come insiemi di numerosissime particelle in collisione elastica fra loro e con le pareti interne del contenitore, alla sovrapposizione di onde sinusoidali per ricavare suoni complessi, allo studio dell’atomo e del nucleo atomico, i cui comportamenti sono visti come somme dei comportamenti individuali dei componenti di base, che in questo caso sono le particelle elementari e le forze di interazione fra le stesse.

Le indagini di mercato, i sondaggi, il calcolo degli indicatori economici utilizzati come strumenti di previsione, costituiscono esempi di applicazione dell’approccio riduzionista nelle scienze sociali. Essi assumono, infatti, che il comportamento della società sia interpretabile semplicemente come la somma dei numerosi e isolati comportamenti individuali, senza tener conto di alcuna interazione non lineare fra gli individui-agenti. Tali interazioni fra gli individui, tuttavia, esistono e sono non lineari, per cui a volte il riduzionismo cessa di essere efficace, e le previsioni di comportamento globale falliscono, senza che sia identificabile alcuna causa esterna al sistema che ne determini il fallimento. Ciò, si badi bene, non per l’intrinseco margine di incertezza dell’infe­renza statistica, che in sé non è incompatibile con l’approccio riduzionista, ma per il fatto che le società umane non sono solamente la somma di individui isolati, ma sono costituite da individui inseriti in una fitta rete di interazioni non lineari. Attraverso la fitta rete delle interazioni circolano comunicazioni di tutti i tipi: razionali, emotive, esplicite, sub­liminali, informazioni acquisite e trasferite in modo diretto o indiretto, informazioni rivolte a singoli o a gruppi ecc. Tale rete di interazioni è all’origine dei fenomeni emergenti (Barabási, 2002) sociali, economici e di altro tipo, che in generale hanno il carattere di fenomeni di massa e sono l’oggetto di numerose indagini condotte, soprattutto in anni recenti, da studiosi di economia, di marketing, di sociologia e di altre aree delle scienze sociali. Tale, ad esempio, è il caso dell’emergere della segregazione sociale nel modello di Schelling presentato nel Capitolo 1.1 (si vedano, per citare qualche testo fra i numerosi su questo tema: Schelling, 1978; Rullani, 2004; Anderson Ch., 2006; Johnson, 2007; Sassen, 2007; Taleb, 2007).

Gli esempi sono numerosi e convincenti. Tanto per farne uno, le numerose crisi dei mercati borsistici, da quando sono state istituite le borse valori fino ai ben noti avvenimenti recenti, sono state spesso susseguenti alla formazione incontrollata di bolle speculative di varia natura, e quasi sempre si sono presentate in momenti di grande euforia, imprevedibilmente se non addirittura contro le previsioni degli economisti e delle istituzioni più influenti. Sono state sovente, cioè, un esempio di fenomeno di autoorganizzazione endogeno al mercato, che trova la propria giustificazione nel rafforzamento reciproco delle opinioni degli agenti i quali, interagendo secondo modalità non lineari, gonfiano o deprimono le valutazioni che essi effettuano prima delle decisioni, più su basi emotive o psicologiche che non fondandosi su elementi concreti, dando così origine a estesi fenomeni di incontrollata crescita prima e di rapido crollo dopo (Krugman, 1996; Arthur, Durlauf e Lane, eds., 1997; Lane e altri, eds., 2009).

Secondo un’analogia proposta da Paul Krugman (1996), premio Nobel per l’economia 2008, la recessione in economia è l’esito della dinamica di un sistema economico instabile che improvvisamente si autoorganizza, così come lo è la formazione di un uragano nel sistema instabile atmosferico. Sia un uragano sia una grave recessione, come quella seguita alla crisi del 1929, nascono da un limpido cielo blu. Se, per qualche motivo, la pressione su una particolare zona dell’oceano tropicale è più bassa del normale, si instaura un processo che si autosostiene: l’aria che sale solleva il vapore acqueo fino a un’altitudine alla quale esso condensa rilasciando calore, il quale fa salire aria ancora più rapidamente e riduce ulteriormente la pressione negli strati bassi, fino a quando, in quella parte di atmosfera interessata dal sollevamento, affluendo aria negli strati bassi, si forma un vortice orizzontale rotante. Anche una recessione si autoalimenta come l’uragano: il calo della produzione induce una riduzione degli investimenti delle imprese e un calo dei consumi, cosa che fa calare ancor di più la produzione, che induce ulteriori diminuzioni degli investimenti, dei consumi, quindi nuovamente della produzione, e così via.

A un certo punto però, le piogge provocate dalla condensazione del vapore ad alta quota raffreddano la superficie dell’oceano riducendo l’intensa evaporazione che è all’origine dell’uragano stesso. Gli uragani si autoalimentano nel breve termine, ma si autolimitano nel lungo termine. Allo stesso modo, una recessione è un processo che si autolimita nel lungo termine: la caduta della produzione infatti causa la caduta dei prezzi e quindi l’offerta di moneta in termini reali, il che può ridurre i tassi di interesse, favorire nuovi progetti di investimento e rilanciare la produzione, anche in assenza di interventi politici esterni al mercato.

Uragani e recessioni originano entrambi da situazioni di equilibrio instabile: una piccola perturbazione innesca il meccanismo che porta alla loro genesi e al loro impetuoso sviluppo. Per illustrare questo punto, Krugman (1996) richiama il modello del ciclo economico elaborato da Scheinkman e Woodford (1994). Si immagini un’economia costituita da una struttura di imprese a diversi livelli, in cima alla quale stanno le imprese che producono beni finali, per i quali gli ordini arrivano in maniera casuale. Queste imprese acquistano i propri input dalle imprese che occupano lo strato inferiore, le quali a loro volta li acquistano da quelle che occupano lo strato precedente, e così via. Ciascuna impresa evade un ordine di un’unità di prodotto utilizzando il proprio stock di magazzino; se non ha scorte, ordina a due imprese precedenti nella scala gerarchica un’unità di input ciascuna: una unità è utilizzata per evadere l’ordine, l’altra entra nel magazzino. Si instaura allora una sorta di catena di propagazione degli ordini, la cui lunghezza dipende dall’am­montare delle scorte7. Se le scorte sono sufficientemente elevate, gli ordini saranno in genere soddisfatti dagli stock di magazzino e non genereranno ordini addizionali. Altrimenti, ciascun ordine darà luogo a due ordini in più, e l’ordine di un bene finale produrrà una catena di ordini di beni intermedi, la cui lunghezza dipende dal livello delle scorte.

Il livello delle scorte determina così la lunghezza della catena degli ordini: quanto più basse sono le scorte, tanto più lunga è la catena degli ordini. Il fatto sorprendente è che il modello mostra che l’evoluzione di un sistema economico di questo tipo è tale per cui il livello delle scorte tende a mantenersi sempre in prossimità di un particolare valore critico, sotto il quale la lunghezza della catena degli ordini diverrebbe, almeno in linea teorica, infinita. Il modello mostra, inoltre, che un flusso quasi costante della domanda genera delle fluttuazioni di tutte le dimensioni nella produzione, e che le fluttuazioni sono distribuite secondo una legge di potenza, come accade per le scale delle dimensioni e delle energie dei vortici in un fluido turbolento. Il sistema economico dunque può generare endogenamente fluttuazioni di tutte le dimensioni, la cui comparsa è l’esito di un processo autoorganizzativo; e ciò vale anche per le fluttuazioni che hanno la dimensione tipica della fluttuazione implicata dalla teoria del ciclo economico lineare.

Ciò non significa soltanto che le fluttuazioni della produzione sono possibili anche in presenza di un flusso costante della domanda del bene finale. Ciò può spiegare anche come mai le recessioni tendono ad assumere un carattere globale, superando i confini, più o meno indefiniti, fra il sistema economico di un paese e quello di un altro, come accaduto negli anni 1929-1932, 1974-1975, 1990-1992, e anche in quella iniziata nell’autunno 2008 e attualmente in corso. Si tratta di una forma di sincronizzazione di fase (phase lock) fra le oscillazioni locali in sistemi economici locali accoppiati fra loro. I movimenti della bilancia commerciale rappresentano quel piccolo shock negativo capace di perturbare l’equilibrio e innescare la recessione, così come una piccola depressione atmosferica scatena l’uragano. Due economie, in realtà, non hanno bisogno di essere collegate in maniera molto intensa per sviluppare un ciclo sincronizzato: basta un legame modesto perché esse mostrino cicli simili. Come descrive il modello di Scheinkman e Woodford (1994), è sufficiente che, nella catena di cui si è detto, una delle imprese a valle rispetto a un’impresa di uno Stato si trovi in uno Stato diverso.

Si può mostrare così come sia possibile utilizzare per molti fenomeni economici i modelli di autoorganizzazione, e come un principio del tipo di «ordine a partire dall’instabilità» possa dar conto dei cicli economici e anche, ad esempio, fra le tante altre cose, della formazione delle città a partire da una popolazione uniformemente distribuita sul territorio. Si può mostrare, infine, come un principio di «ordine a partire dalla crescita casuale» possa portare alla formazione di una distribuzione rango-dimensione (la «rank-size rule») secondo una legge di potenza, fenomeno osservato in numerosissimi e svariati contesti. Leggi di potenza, definite ciascuna da un particolare valore del proprio esponente, sono, per fare qualche esempio, la distribuzione del numero dei terremoti secondo la loro energia e quella del numero dei meteoriti sempre secondo la loro energia, la distribuzione del numero delle città degli Stati Uniti rispetto alla dimensione della popolazione che vi abita8.

2.4 La modellizzazione della complessità

L’obiettivo della modellizzazione della complessità è di identificare i meccanismi, o almeno alcuni dei meccanismi, capaci di generare una descrizione dei cambiamenti degli stati di un sistema complesso adattivo e, tipicamente, capaci di descrivere l’emergere di qualche insieme di regolarità nelle configurazioni che si manifestano nel corso dell’evolu­zione endogena del sistema stesso. I sistemi complessi adattivi sono, in genere, estremamente difficili da modellizzare efficacemente. Ciò perché nell’evoluzione di un sistema complesso, si presentano degli stati di instabilità in corrispondenza dei quali piccole perturbazioni causano nel sistema importanti effetti imprevedibili. Situazioni di questo genere sono tipiche delle dinamiche instabili e caotiche, ma nel caso della complessità la questione è diversa. In corrispondenza degli stati di instabilità, può succedere che il sistema si autoorganizzi, assumendo spontaneamente, senza cioè alcuna spinta che lo piloti dall’esterno, una configurazione di equilibrio. Può accadere, cioè, che le interazioni non lineari diffuse nel sistema e il feedback che agisce su tutti gli elementi siano tali da dare origine improvvisamente a un inatteso comportamento coordinato di tutte le parti del sistema.

Il livello di dettaglio della formulazione del modello per descrivere le dinamiche non lineari deve essere altissimo. Se i meccanismi che si vogliono inserire nel modello sono conosciuti correttamente e sono selezionati efficacemente, essi generano sequenze di stati che descrivono fedelmente il comportamento del sistema, o quantomeno lo approssimano accettabilmente. I computer permettono un livello di dettaglio notevole nella modellizzazione: ciò, se da una parte permette di far funzionare modelli estremamente elaborati e articolati in molti dettagli, da un’altra parte comporta i rischi connessi con la realizzazione di modelli eccessivamente dettagliati, costruiti accumulando dettagli su dettagli, senza criteri di selezione. Modelli articolati secondo troppi dettagli, infatti, possono far passare in secondo piano gli elementi più rilevanti della dinamica complessa allo studio, nascondendoli sotto una coltre di segnali non rilevanti. Vi è il rischio, cioè, che tali modelli non riescano a descrivere adeguatamente, in un quadro olistico, i sistemi cui si riferiscono, poiché un eccesso di dettagli nella formalizzazione delle dinamiche delle singole parti, in un modello che intendesse essere onnicomprensivo, potrebbe mascherare la comparsa di fenomeni emergenti.

Una volta che un problema particolare sia stato identificato e ci si siano poste delle domande specifiche sullo stesso, è opportuno iniziare l’analisi utilizzando un modello semplice, sottoponendo così le domande a un modello che sia adeguatamente circostanziato, ma che non abbia la pretesa di essere onnicomprensivo. Si valuta fino a che punto il modello possa aiutare a rispondere alle domande poste, aggiungendo al modello un nuovo meccanismo solo quando se ne riconosca la necessità. Il metodo di utilizzare il più a lungo possibile un modello semplice può rivelarsi proficuo e consentire di produrre modelli che hanno il grado di dettaglio strettamente necessario per rispondere alle domande, quindi non sovrabbondante.

In un sistema complesso adattivo, come abbiamo detto, ogni individuo-agente, libero e consapevole se parliamo di sistemi sociali, interagisce intensamente e in modi non lineari con una moltitudine di altri individui-agenti. Senza alcuna perdita di generalità, è utile pensare all’ambiente in cui opera un agente come rappresentato interamente da agenti, alcuni dei quali non mostrano alcuna capacità di adattamento agli stimoli provenienti da altri agenti, e che per questo chiamiamo passivi. Ogni agente adattivo riceve informazioni sul proprio ambiente attraverso un insieme di rivelatori o indicatori; potremmo dire, sotto forma di un messaggio costituito da un pacchetto standardizzato di informazioni. Ricevuto il messaggio, l’agente lo elabora giungendo a un risultato che può anch’esso essere comunicato sotto forma di messaggio. Questo può essere diretto verso altri agenti, i quali, tutti insieme, realizzano le interazioni che modificano l’ambiente dell’agente (si vedano ad esempio: Batten, 2000; Rabino, 2005; Terna, 2005, 2008; Terna e altri, a cura di, 2006; Terna e Taormina, 2007).

In generale quindi, possiamo pensare a un sistema complesso adattivo come a una rete di comunicazioni in cui circolano messaggi che veicolano informazioni, le quali vengono elaborate dagli agenti: i nodi della rete, i quali sono visti come meccanismi di elaborazione dei messaggi e di produzione della conoscenza (Barabási, 2002).

Ora, se pensiamo gli agenti di un sistema complesso come i componenti di base di questo, allora dovremmo osservare, secondo quanto accennato nel Capitolo 2.3, un’organizzazione gerarchica nella più parte dei sistemi complessi adattivi. Accade che alcune combinazioni di agenti, grazie alle interazioni particolarmente efficaci che li legano in un sottoinsieme del sistema, acquisiscano maggiore persistenza di altre combinazioni, le quali pagano le spese del successo delle prime non accedendo a risorse che per loro sono diventate indisponibili. Ad esempio, in un sistema economico, combinazioni persistenti di imprese diventano candidate ad assumere il ruolo di agenti a un livello più elevato di organizzazione, come accade, ad esempio, quando in un territorio in cui è insediato un sistema economico sviluppato si formano particolari aggregati, localizzati in aree di estensione limitata, costituiti da industrie e altre attività che sono caratterizzate non solo dalla condivisione delle esperienze, ma anche da una attiva fitta rete di comunicazioni a livello sociale (il cosiddetto capitale immateriale) e da continue, diffuse e intense interazioni fra le parti.

Il distretto industriale è un tipico esempio di struttura economico-spaziale che si fonda su una rete di comunicazioni, la quale consente l’accesso alle risorse e la loro disponibilità (Becattini, 1998; Quadro Curzio e Fortis, a cura di, 2002; Rullani, 2004; Viale, a cura di, 2008). Nel distretto, l’impossibilità per le piccole imprese di sfruttare economie di scala interne è compensata da economie esterne all’impresa ma interne al distretto, di cui si possono appropriare solo le imprese appartenenti al distretto stesso (Barbato e Luo, 2008). Per il successo impren­ditoriale del distretto, contano pertanto le relazioni tra gli attori in campo, tra i loro capitali, tra le loro conoscenze e le loro strategie. L’espe­rienza dei distretti mostra che un patrimonio di saperi sedimentatisi negli anni può diventare un importante fattore di sviluppo e di successo.

Conta sempre di più, in una parola, «la rete». La rete che si esplica su differenti livelli, come quello delle interazioni economiche, quello delle risorse del territorio, quello delle interazioni di carattere sociale e delle comunicazioni, è la chiave del successo economico del distretto industriale. Con l’accesso alla rete, il «piccolo» può ambire a entrare nei mercati cui accede il «grande», nei quali da solo non riuscirebbe a entrare. Accedere alla rete, dunque, significa accedere alle risorse degli altri e condividerle con reciproco beneficio. La rete è, prima di tutto, la rete delle interazioni non lineari fra gli operatori economici, fondata sulla fitta trama di relazioni e di fiducia che lega costoro sul territorio. La rete, che si basa sulla fiducia che nasce dalla prossimità e dalla concentrazione geografica, dalla conoscenza diretta e personale consolidatasi in anni di lavoro nel medesimo campo, si crea come un fenomeno emergente spontaneo. La realtà produttiva dei distretti è dunque di natura spontanea e autoorganizzativa, e male si accorderebbe ad azioni regolative dirigistiche esterne (Corò e Micelli, 2008).

Un secondo esempio di sistema complesso che si fonda su una rete di interazioni non lineari può essere riconosciuto in quella concezione moderna di impresa chiamata spesso «impresa rete» (Dioguardi, 2005, 2007a, 2007b). Nel contesto dell’impresa, la rete è soprattutto una rete di tecnologie, in particolare informatiche, ma anche una rete di individui delegati alle decisioni e personalmente motivati sugli obiettivi da realizzare. L’impresa, superato il paradigma tayloristico, sempre più frequentemente si trasforma da semplice funzione di produzione a strumento di governo di processi complessi di natura tecnologica e sociale, come la ricerca applicata, lo sviluppo tecnologico, la diffusione dell’innovazione, la formazione avanzata, che diventano processi essenziali per la sopravvivenza e il successo sui mercati globali.

Nell’impresa rete, ai tradizionali problemi di strategia e struttura si affianca l’attività di governance, nell’ambito della quale l’imprenditore si trova a gestire un’impresa costituita dalla rete di imprese operanti nel suo indotto: una rete cui si è arrivati attraverso una serie di aggiustamenti organizzativi succedutisi nel tempo, principalmente esternalizzazioni e terziarizzazioni, cui corrisponde a valle una struttura speculare composta da una rete di clienti fra loro interconnessi. Le imprese della rete, tutte insieme, formano una «macroimpresa», un insieme di imprese orientate a realizzare gli obiettivi comuni specificamente espressi dall’impresa di coordinamento generale e di governo. Nell’impresa rete, gli individui si trovano così a svolgere un ruolo creativo di agente, essendo fortemente motivati nella loro missione aziendale, in modo del tutto antitetico a quanto prevedeva la concezione taylorista che spersonalizzava e omologava gli individui. In questo modo, si può parlare di impresa come di una rete di individui in interazione che operano come imprenditori di se stessi.

I sistemi economico-spaziali come i distretti industriali e le imprese rete, e come i sistemi urbani e regionali di cui ci siamo occupati nella Parte I, sono sistemi a molte dimensioni, che presentano le caratteristiche della complessità a diversi livelli gerarchici. Sono, in questo senso, sistemi complessi sotto molti punti di vista: non solo nel particolare livello e nella singola dimensione in cui si proietta la descrizione del sistema, ma anche nei collegamenti fra livelli diversi e dimensioni diverse. È chiaro che la modellizzazione di tali sistemi ne dà una descrizione necessariamente semplificata, la quale privilegia alcuni di quei livelli e dimensioni; in questo caso, principalmente il livello economico e quello spaziale, trascurandone altri. Ciò comporta inevitabilmente la perdita di componenti del sistema e una conseguente riduzione del suo grado di complessità, come accade peraltro in situazioni analoghe in qualsiasi altro sistema complesso.

2.5 L’economia complessa

Un sistema di mercato è un insieme di individui-agenti, liberi nelle proprie decisioni, le quali vengono prese individualmente. Gli individui interagiscono fra loro secondo schemi ricorrenti che si formano in riferimento a beni oggetto di scambio. Attraverso le reciproche interazioni non lineari, gli agenti producono, comprano e vendono, usano beni e sviluppano nuovi beni. Non solo, ma per via delle stesse interazioni non lineari fra agenti, si formano sottosistemi in cui le interazioni sono più forti, persistenti e stabili nel tempo. Ciò permette di identificare nuovi schemi di interazione e nuove entità-agenti nel sistema. Tutto questo si svolge incessantemente nel corso del tempo, e assicura la dinamica del sistema di mercato, anche se le circostanze nelle quali il sistema di mercato svolge le proprie dinamiche cambiano in risposta a perturbazioni interne o esterne al sistema di mercato stesso.

Vi è differenza fra «il sistema di mercato» e «il mercato», intendendo per «mercato» l’entità a cui tradizionalmente fanno riferimento gli economisti. Il mercato in sé è un luogo di scambio impersonale, in cui gli agenti scambiano prodotti con caratteristiche ben definite, a prezzi che, secondo i postulati della teoria standard della scienza economica neoclassica, riflettono l’equilibrio fra domanda e offerta. La teoria economica assegna a questi prezzi il ruolo di elementi di comunicazione, gli unici elementi di comunicazione, fra agenti che sono tutti uguali fra loro, tutti homini oeconomici, i quali usano le informazioni sui prezzi, disponibili a tutti, per decidere le proprie azioni. Le relazioni fra gli agenti non hanno nessun effetto nel mercato: ciò che veramente conta è quanto ogni agente homo oeconomicus, pienamente razionale e onnisciente, valuta un prodotto nel mercato e gli elementi che il mercato, operando come entità in sé, aggrega nel prezzo di quel prodotto.

In realtà, nel mercato hanno luogo intense e continue interazioni fra gli individui-agenti, i quali incessantemente non solo contrattano i prezzi, ma si scambiano anche opinioni e sensazioni sul significato che i prodotti rivestono per ciascuno di loro. Opinioni e sensazioni: qualcosa di ben diverso dalla valutazione numerica di un prezzo. In particolare, gli agenti apprendono da questi scambi reciproci qualcosa di più e di diverso da quanto ricavano dal semplice meccanismo dell’equilibrio dei prezzi, il quale addirittura, come sovente accade nei casi reali, può rivelarsi un equilibrio non stabile, può essere costituito da un insieme di stati possibili e può anche non esistere. Quando il mercato, inteso nel senso tradizionale, si colora di questa fitta rete di interazioni fra gli agenti, allora diventa un fatto fortemente sociale, diventa un sistema che, in certe circostanze, si autoorganizza endogenamente, cioè si riassesta, come abbiamo detto, cambiando spontaneamente la propria struttura interna senza alcuna azione dall’esterno, diventa un sistema in cui si formano proprietà emergenti, diventa un «sistema di mercato». Non pensiamo più dunque al mercato come a uno spazio-contenitore delle azioni umane, una platea dove si incontrano domanda e offerta e si contrattano i prezzi, una sorta di «spazio assoluto» in cui si muovono gli agenti, similmente a come Newton intendeva con «spazio assoluto» l’universo-contenitore in cui si muovono tutti i corpi in reciproca interazione gravitazionale. Consideriamo il mercato, invece, come un sistema complesso adattivo, che evolve per effetto delle dinamiche degli agenti e delle relazioni non lineari fra gli stessi: agenti e relazioni fra gli agenti costituiscono, tutti insieme, «il sistema di mercato» (Schelling, 1978; Krugman, 1996; Arthur, Durlauf e Lane, eds., 1997; Barkley Rosser Jr. e Cramer Jr., eds., 2004; Metcalfe e Foster, eds., 2004; Lane e altri, eds., 2009).

Attualmente, sempre più spesso accade nella teoria economica che circostanze che erano considerati insolite e non accettabili tendano invece a essere considerati usuali, accettabili, se non addirittura desiderabili. Per quasi un secolo è stata largamente dominante l’idea che la realtà economica possa essere ragionevolmente descritta da insiemi di coppie di curve lineari della domanda e dell’offerta che si intersecano in singoli punti di equilibrio, i quali configurano stati verso cui i mercati tendono a portarsi secondo la teoria dell’equilibrio economico generale (Ingrao e Israel, 1987). In questi ultimi decenni, invece, ci si sta rendendo sempre più spesso conto del fatto che molti mercati reali, forse tutti, non si comportano come prevede la teoria economica mainstream, se non in casi molto particolari e circoscritti; ad esempio, quando sono piccoli e vi si scambiano merci indifferenziate o quasi, come, tanto per fare un esempio, nel commercio delle patate in un mercato rionale, nel quale appunto i prezzi rapidamente si equilibrano. La realtà economica, di fatto, è infestata, diciamo così, dalla diffusa presenza di non linearità nelle interazioni fra gli agenti, dalla presenza di discontinuità nelle dinamiche, da asimmetrie, distorsioni e carenza di informazioni, nonché da un’infinità di fenomeni che non sono prevedibili e non sono nemmeno comprensibili a fondo (Anderson P.W., Arrow e Pines, eds., 1988; Arthur, Durlauf e Lane, eds., 1997; Barkley Rosser Jr. e Cramer Jr., eds., 2004; Delli Gatti e altri, 2007; Lane e Maxfield, 2009).

Non solo. Gli stessi meccanismi che determinano le scelte degli agenti economici, come peraltro quelle di qualsiasi individuo nelle circostanze più disparate in cui può trovarsi a decidere fra diverse alternative, sono fondati spesso non solo sulla razionalità, ma anche su fattori di carattere psicologico ed emotivo, e avvengono secondo processi mentali non razionali. Detti fattori e processi, in qualsiasi individuo reale, inevitabilmente si affiancano alla razionalità e sovente la pongono in secondo piano, dando origine a meccanismi mentali che portano a comportamenti di scelta molto spesso incoerenti e in contraddizione con la teoria delle scelte razionali, come elaborata da John von Neumann e Oskar Morgenstern nel loro celebre libro del 1944. La contraddizione è manifesta, ad esempio, quando i comportamenti di scelta sono dettati da motivazioni legate al sentimento sociale dell’altruismo, come è stato già osservato da alcuni sociologi, come Mark Granovetter (1973, 1985) e Karl Polanyi (1977), secondo i quali i rapporti personali sono integrati in reti sociali che possono generare fiducia e creare relazioni di scambio diverse da quelle dettate dalla pura razionalità economica. Evidente contraddizione rispetto alla razionalità si ha, ad esempio, quando la scelta economica è legata alla ricerca, da parte di chi compie la scelta, di una felicità originata dal sentimento che si prova quando si compie un’azione gradita ad altri, come è il dono. Si tratta, come è evidente, di criteri di scelta in totale antitesi alla razionale ed egoistica massimizzazione dell’utilità individuale dell’homo oeconomicus (Bruni e Porta, a cura di, 2004, 2006; Bruni e Zamagni, 2004; Bruni, 2006; Sacco e Zamagni, a cura di, 2006).

Le prime proposte avanzate nella scienza economica riguardo all’idea di un comportamento di scelta non razionale dell’individuo-agente economico risalgono agli anni Cinquanta, più o meno nello stesso periodo in cui veniva dimostrato il grandioso teorema dell’equilibrio economico generale, e furono l’esito dei risultati inattesi e sorprendenti di alcuni test condotti su individui reali, e non quindi su agenti astratti definiti teoricamente. Si tratta dei celebri paradossi di Allais (1953), prima, e di Ellsberg (1961), qualche anno più tardi. I lavori dei due studiosi costituiscono i primi episodi di economia sperimentale, cioè di scienza economica studiata non con costruzioni teoriche e logico-deduttive o utilizzando modelli teorico-matematici, ma nella quale si indaga attraverso l’analisi di esperimenti eseguiti sotto forma di test psicologici, condotti su persone reali. L’idea che lentamente comincia a farsi largo a seguito di tali esperimenti, è che i meccanismi di scelta il più delle volte non sono riferibili a processi logico-deduttivi razionali, e ciò, in particolare, quando è in gioco anche la percezione individuale della probabilità degli eventi o, come viene chiamata, la probabilità soggettiva (de Finetti, 1931a, 1931b, 1970, 1981, 1991; Savage, 1954; si vedano anche: Plato von, 1989; Cifarelli e Ragazzini, 1996).

Il lavoro di Allais discuteva il modo in cui gli individui, nel prendere una decisione, valutano il rischio economico e, di conseguenza, se le decisioni economiche vengano prese razionalmente oppure no. Allais dimostrò, con l’analisi dei dati empirici da lui raccolti come abbiamo detto, e non attraverso ragionamenti formali teorico-matematici, che gli individui intervistati si comportavano incoerentemente. Essi, posti di fronte a un’alternativa di scelta fra due scommesse, in grande maggioranza sceglievano l’alternativa della scommessa su una vincita minore, ma certa, rispetto a una scommessa su una vincita maggiore, ma non certa, della quale era nota la probabilità. Gli individui mostravano in questo modo avversione al rischio. Successivamente però, a una domanda formulata in modo leggermente diverso mostravano di preferire la scommessa su una vincita più alta, con una data probabilità, rispetto alla scommessa su una vincita più bassa, ma con una probabilità maggiore. Gli individui mostravano in questo caso, invece, propensione al rischio, in contraddizione con l’atteggiamento di avversione al rischio mostrato nella risposta alla domanda precedente.

Le conclusioni di Allais erano molto lontane dalle idee della teoria economica dominante in quegli anni negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, e cioè l’economia neoclassica. Nonostante ad Allais trentacinque anni dopo, nel 1988, venisse assegnato il premio Nobel per l’economia, il sorprendente risultato delle ricerche da lui condotte, l’aver cioè evidenziato l’incoerenza delle decisioni economiche, e quindi la loro sostanziale non razionalità, non aveva avuto una grande risonanza negli ambienti della teoria economica mainstream.

L’esperimento condotto da Ellsberg nel 1961, lungo la linea di quello di Allais, mostrò come le persone in condizioni di incertezza si comportino non in accordo con gli assiomi della teoria classica della decisione. Ellsberg osservò, nei test da lui condotti, che gli individui intervistati, se posti di fronte a due formulazioni differenti della stessa scelta fra due scommesse, una scommessa in cui le probabilità degli esiti oggetto della scommessa stessa sono note, e l’altra in cui invece non lo sono, in gran maggioranza si comportano in modo incoerente, dando risposte contraddittorie. Secondo i due modi in cui viene formulata la domanda, in grande maggioranza gli individui scelgono, nella prima formulazione, la scommessa in cui conoscono le probabilità e, nella seconda formulazione, la scommessa «al buio», in cui le probabilità non sono note. Ciò, come dimostrò Ellsberg, porta a una palese violazione dell’assioma dell’indipendenza dalle alternative irrilevanti, uno dei pilastri su cui si fonda la teoria classica della scelta di von Neumann e Morgenstern (si veda: Bertuglia e Vaio, in corso di stampa).

Maggior seguito hanno avuto invece, in anni a noi più vicini, i lavori di Vernon Lomax Smith (1976, 1982, 1991, 2000) e quelli di Daniel Kahneman e di Amos Tversky (Kahneman e Tversky, 1979; Tversky e Kahneman, 1991, 1992, Kahneman, 2003), i quali hanno mostrato, anch’essi su basi sperimentali e con grande evidenza, l’importanza dei meccanismi psicologici individuali nei processi di scelta in economia9.

In particolare, le osservazioni di Kahneman e Tversky mostrano che solitamente negli individui la percezione della perdita di una certa somma di denaro è più forte della percezione del guadagno dell’identi­ca somma, mostrano cioè che gli individui sono sostanzialmente avversi al rischio. Ciò si traduce nell’assunzione che, ad esempio in un investimento, la funzione che mette in relazione il valore percepito con il valore reale della perdita, nel semipiano delle ascisse negative, sia diversa dalla funzione che mette in relazione il valore percepito con il valore reale del guadagno, nel semipiano delle ascisse positive. La prima è negativa, convessa e ripida, mentre la seconda è positiva, concava e meno ripida della prima (Figura 3).

Gli individui manifestano una sensibilità (il valore percepito) marginalmente decrescente nei confronti sia dei guadagni sia delle perdite, cioè nei confronti dei cambiamenti della propria ricchezza, ma con una crescita più rapida della sensibilità alla perdita (il dispiacere per la perdita) rispetto alla rapidità di crescita della sensibilità al guadagno (il piacere del guadagno). Il grafico della funzione che descrive il valore percepito, che risulta dall’unione delle due funzioni, avrebbe pertanto, secondo le ricerche sperimentali di Kahneman e Tversky, una sorta di forma a «S». Kahneman e Tversky hanno mostrato, inoltre, che l’esito dei processi di scelta in condizioni di incertezza dipende in modo fondamentale anche dalla formulazione (framing) delle alternative di scelta, cioè da come viene proposto (o «inquadrato») il particolare problema di scelta fra le alternative.

 

 

Figura 3 Andamento della relazione fra valore percepito e valore reale del guadagno e della perdita, secondo Kahneman e Tversky

I lavori degli studiosi citati, insieme ai già citati lavori di Hayek e di Simon, hanno concorso alla formazione di un nuovo ramo dell’eco­nomia, rapidamente sviluppatosi in questi ultimi tre decenni, che si pone al di fuori della teoria neoclassica: l’economia cognitiva (si vedano, ad esempio: Rizzello, 1997; Motterlini e Piattelli Palmarini, a cura di, 2003; Rizzello e Egidi, eds., 2004; Motterlini e Guala, a cura di, 2005; Viale, a cura di, 2005). L’economia cognitiva non è una vera e propria teoria economica formale: essa si sviluppa su basi sperimentali e si propone di fondere la psicologia con l’economia, mettendo a fondamento delle scelte in campo economico non la massimizzazione del profitto, ricercata con metodi logico-razionali da parte di un individuo-agente astratto, razionale e onnisciente, bensì i processi psicologici e cognitivi di un individuo reale, osservato empiricamente, che soggiace ai propri meccanismi psicologici.

L’individuo-agente dell’economia cognitiva adotta tipicamente una forma non lineare per le relazioni fra stimoli, informazioni e decisioni che egli intreccia nella propria mente. I sistemi composti da numerosi individui-agenti economici sono anch’essi, e a maggior ragione, tipici sistemi non lineari. Infatti, non solo sono sistemi di individui, i quali singolarmente agiscono secondo regole non lineari, ma sono anche sistemi in cui le interazioni fra gli individui esistono, sono intense e si svolgono secondo forme non lineari. Sono sistemi in cui gli individui non sono mai uguali gli uni agli altri e mantengono comunicazioni continue fra loro: le interazioni sono intense e mutano nel tempo, poiché gli individui stessi sono capaci di apprendere dall’esperienza e, in virtù dell’apprendimento, cambiano nel tempo le proprie elaborazioni delle informazioni ricevute.

Malgrado tutto ciò, a fronte di macroscopici fenomeni di variabilità e della sostanziale imprevedibilità dei comportamenti individuali, è innegabile la presenza nei sistemi economici di schemi e dinamiche ricorrenti, cioè di una forma di ordine. L’ordine emerge dall’insieme delle singole interazioni fra gli individui-agenti, difficilmente comprensibili nei loro dettagli e solo parzialmente descrivibili con modelli: interazioni i cui effetti, che danno luogo ai processi evolutivi dell’economia, sono sostanzialmente imprevedibili. Questi fenomeni sono indicati, in genere, con l’espressione «economia complessa».

Anche i fenomeni economici che appaiono ricorrenti risultano generalmente da un comportamento degli individui-agenti che non sempre è in accordo con quanto prevede la teoria delle aspettative razionali e raramente è prevedibile. Viviamo in un mondo che riflette l’enorme varietà degli individui, i quali sono diversi nella conoscenza che elaborano a partire dalle informazioni cui hanno accesso, sono diversi negli atteggiamenti e nel fatto che essi, gli individui, non sempre agiscono razionalmente, interagiscono fra loro secondo modalità diverse, non lineari, che si attuano entro un elevato numero di strutture istituzionali. Ciò che emerge nell’aggregato può avere poco a che fare con ciò che accade a livello individuale, ma l’aggregato complesso non può essere descritto semplicemente da qualche insieme di equazioni aggregate. Esso emerge invece dalle azioni di un gran numero di individui singoli diversi fra loro, ciascuno con le proprie peculiarità e in stretta relazione con altri individui.

Questa concezione delle modalità della dinamica economica, come abbiamo già osservato nei Capitoli 2.2 e 2.3, è diversa da quella della teoria economica neoclassica, la quale descrive un mercato composto da un aggregato di agenti homini oeconomici tutti uguali, tutti isolati l’uno dagli altri, tutti pienamente razionali ed egoisti, tutti impegnati a elaborare, con la medesima piena razionalità, la stessa completa informazione che ciascuno di essi condivide con tutti gli altri, tutti dediti solamente alla massimizzazione di una funzione utilità individuale uguale per tutti.

Questo cambiamento di prospettiva ha comportato nuovi approcci all’analisi economica. Nella teoria economica neoclassica si applicano metodi logico-deduttivi formali e si eseguono dimostrazioni di teoremi che mirano a ricavare soluzioni generali largamente applicabili. Ciò è culminato, come già detto, nel grandioso teorema dell’equilibrio generale di Arrow e Debreu (1954), che ha portato a compimento, in pieno stile bourbakista10, il percorso aperto da Walras più di ottant’anni prima (si vedano: Ingrao e Israel, 1987; Bertuglia e Vaio, in corso di stampa).

Assistiamo in questi ultimi decenni, invece, a una crescente rilevan­za attribuita ai metodi sperimentali e alle simulazioni al computer, attraverso l’applicazione di modelli, per determinare induttivamente i possibili esiti delle scelte degli agenti e le soluzioni dei problemi. I fenomeni emergenti che nascono nei sistemi complessi non sono scoperti, di solito, a seguito della dimostrazione di un teorema, ma sono evidenziati utilizzando i computer per esplorare le possibilità e i limiti che si possono presentare elaborando modelli sempre più articolati. La consapevolezza della complessità, in questo modo, può introdurre qualche novità nel modo di guardare ai fenomeni e processi economici.

In aree diverse della scienza sono emerse differenti definizioni di complessità, appropriate per le singole aree. Tali definizioni hanno molto in comune, ma non tutto. La computer science è in generale il riferimento all’origine dei tentativi di dare una definizione formale della complessità. Nel contesto della computer science, la complessità di un sistema (o di un problema) viene vista come lunghezza dell’algoritmo più breve capace di descrivere il sistema stesso (o di risolvere il problema) (Bertuglia e Vaio, in corso di stampa). È evidente, tuttavia, che questa idea algoritmica di complessità, in realtà, non è quella cui istinti­vamente pensano gli scienziati sociali quando riflettono sui fenomeni complessi nella società e, fra questi scienziati, in particolare gli economisti, quando riflettono sulle dinamiche economiche complesse. E ciò, nonostante l’influenza che è stata esercitata sul pensiero economico dalla computer science e da altri ambiti di ricerca strettamente collegati alla computer science, come l’intelligenza artificiale, per opera di importanti figure di studiosi attivi in diversi settori della ricerca scientifica, primo fra tutti Simon.

Un’idea di come si riconosca la complessità nella dinamica economica può essere espressa come segue (Day, 1994). Un sistema economico è complesso se i suoi processi deterministici endogeni non lo conducono, nella sua dinamica, verso un punto fisso. Più in particolare, per sistemi economici complessi intendiamo i sistemi economici che, come Arthur, Durlauf e Lane (eds.) (1997) delineano efficacemente, condividono le caratteristiche seguenti: (i) hanno relazioni diffuse fra le parti eterogenee che agiscono localmente le une sulle altre entro un certo spazio; (ii) sono privi di qualsiasi controllore generale che governi le interazioni fra le parti per pilotare l’evoluzione del sistema verso una qualche forma di obiettivo precostituito; (iii) possiedono un’organiz­zazione più orizzontale che non gerarchica, con molti tipi di interazioni intrecciate fra di loro; (iv) sono soggetti a un continuo adattamento attraverso processi di evoluzione delle singole parti (gli individui-agenti), come si ha, ad esempio, con l’apprendimento; (v) hanno dinamiche si trovano in stati lontani dall’equilibrio e possono prevedere molti stati di equilibrio, ma anche nessuno; (vi) se sottoposti a stimoli esterni nuovi, reagiscono creando endogenamente dinamiche nuove, a priori del tutto imprevedibili e ingovernabili.

 

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1 Le scienze regionali costituiscono il settore delle scienze della società che studia i problemi specifici delle aree geografiche, includendo in queste le aree urbane e le aree di altro tipo, genericamente dette aree regionali. Fra i temi principali affrontati dalle scienze regionali, si possono indicare la teoria e la modellizzazione della localizzazione delle residenze e dei posti di lavoro, dei trasporti di persone e merci, dell’uso del suolo, dello sviluppo urbano. Nelle scienze regionali si studiano pertanto problemi sociali ed economici che hanno a che fare con il territorio, inteso come spazio fisico, la popolazione che vi risiede e le imprese che vi operano. Le scienze regionali rientrano nel più ampio contesto dell’economia spaziale, la quale si occupa dell’allocazione nello spazio di risorse limitate e della localizzazione delle attività economiche. Il suo ambito può essere ampio o ristretto: da una parte, può estendersi a tutto ciò che concerne l’economia in generale e, dall’altra, può concentrarsi anche solo sulla scelta localizzativa, che è uno dei numerosi problemi di scelta in economia.

2 È celebre il saggio di Douglas Lee «Requiem for Large Scale Models» (1973), nel quale l’autore sintetizzava la delusione seguita all’esperienza della modellizzazione urbana e regionale a grande scala, acquisita dopo l’introduzione dell’utilizzo dei grandi computer avvenuta negli Stati Uniti negli anni Sessanta. I modelli sviluppati fino allora miravano, in sostanza, a fornire delle indicazioni per le scelte strategiche e politiche, riflettendo in ciò l’orientamento dirigistico della pianificazione di quegli anni e fondandosi sull’idea, rivelatasi errata, che quanto più grandi sono il computer e il software del modello tanto più precisa ed efficace è la risposta fornita (si vedano: Batty, 1994; Bertuglia e Vaio, 2003, 2005, in corso di stampa).

3 Talora si parla di «paradigma della complessità». Tuttavia appare ancora difficile parlare per la complessità di un vero e proprio paradigma scientifico, come si discute in Bertuglia e Vaio (in corso di stampa).

4 Sono di quegli anni i fondamentali studi sulla termodinamica delle strutture dissipative, sull’irreversibilità dei processi in disequilibrio e sulla complessità nei sistemi naturali di Ilya Prigogine, premio Nobel per la chimica nel 1977 (si veda ad esempio: Nicolis e Prigogine, 1987).

5 La distinzione introdotta da Hayek tra l’ordine sociale creato e l’ordine sociale spontaneo è, in realtà, precedente e può esser fatta risalire addirittura a Bernard de Mandeville e al suo celebre apologo «La favola delle api» del 1714. Nella favola delle api, Mandeville arriva a sostenere, sia pure in tono scherzoso, la necessità del vizio, poiché la ricerca della soddisfazione egoistica del proprio interesse è la condizione prima della prosperità nella società, la quale compare come ordine sociale spontaneo. Mandeville è riconosciuto da Hayek stesso come l’iniziatore della linea di pensiero che si sviluppa, con Hume, Smith e i filosofi scozzesi del Diciottesimo secolo, dall’idea centrale di un ordine istituzionale non pianificato, che sorge dall’insieme di tanti egoismi individuali.

6 L’idea della razionalità limitata è un tema assolutamente centrale nell’economia comportamentale, cioè in quel ramo della teoria economica che pone all’origine dei processi economici il comportamento soggettivo, e non la razionalità oggettiva, perché la razionalità limitata attiene direttamente al fatto che le modalità secondo cui avviene il processo decisionale influenzano sostanzialmente il contenuto stesso della decisione.

7 In fisica vi è un fenomeno descritto in termini analoghi, chiamato percolazione, che si osserva, ad esempio, quando l’acqua si propaga in un materiale poroso.

8 La rank-size rule citata per le città degli Stati Uniti non riguarda solo gli Stati Uniti, ma può essere riferita anche ad altri paesi. Gli esempi riportati sono casi della celebre legge di potenza nota come «legge di Zipf», introdotta dal linguista americano George Kingsley Zipf nel 1932 con riferimento alla distribuzione delle lettere in ordine di frequenza nella lingua inglese scritta. Zipf stesso, in anni successivi, riconobbe e studiò l’applicabilità della legge che porta il suo nome a numerosi altri contesti, fra i quali, in particolare, alla distribuzione che si osserva, sia pure con eccezioni, del numero di città di un paese secondo la popolazione.

9 Vernon Smith e Daniel Kahneman ricevettero il premio Nobel per l’economia nel 2002 (il premio non poté essere assegnato anche ad Amos Tversky, autore con Kahneman delle fondamentali ricerche premiate, perché scomparso nel 1996, all’età di 59 anni). Robert Aumann, premio Nobel per l’economia nel 2005, osserva che certamente il riconoscimento è andato al fatto che Vernon Smith, Kahneman e Tversky sono stati i primi a introdurre la sperimentazione attiva in economia, laddove fino ad allora vi era stata solo la raccolta e l’uso di dati già esistenti, ma che in tale circostanza furono premiate due pregevolissime linee di ricerca che hanno portato a conclusioni opposte: secondo Kahneman, infatti, la teoria classica è sbagliata, mentre secondo Vernon Smith essa è corretta (Hansen, 2007). Secondo Aumann, l’antitesi delle conclusioni origina dalla profonda differenza fra i due metodi sperimentali adottati. Vernon Smith eseguiva esperimenti reali, osservando ciò che le persone realmente facevano in situazioni normali, come quando operavano nei mercati, mentre Kahneman (con Tversky) eseguiva esperimenti ipotetici, interrogando le persone su che cosa avrebbero fatto in certe circostanze, prospettando loro situazioni inusuali e sconosciute, come si usa fare spesso in economia comportamentale (più o meno come avevano fatto anche Allais e Ellsberg): ciò che le persone dicono di fare non è sempre ciò che esse effettivamente fanno.

10 Nel 1934 si formò a Parigi un circolo di giovani matematici allievi dell’École Normale Supérieure, fra i quali Henri Cartan, Jean Dieudonné e André Weil, che si dette come pseudonimo Nicolas Bourbaki. Il gruppo intendeva rifondare la matematica sul concetto generale di struttura e sulla teoria degli insiemi, mirando a un rigore formale assoluto, rifuggendo da qualsiasi ricorso all’intuizione e proponendo una matematica costituita solo da regole sintattiche formali applicate a un insieme di simboli, a partire da un insieme di assiomi. La scuola bourbakista ebbe grande diffusione soprattutto fino agli anni Settanta, in particolare nelle scuole di matematica francesi, dove ha formato generazioni di matematici. Fra questi, anche coloro che hanno rivolto la propria attenzione alla teoria economica, come Gérard Debreu, laureatosi nel 1946 all’École Normale Supérieure di Parigi, dove era stato allievo di Cartan (Bertuglia e Vaio, 2003, 2005).

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